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L'uovo dell'angelo
In un mondo desolato, sul punto di sgretolarsi, i cui unici abitanti sono ombre a forma di enormi pesci volanti e un fantasma al quale è negato il riposo, la vita sembra essere quasi del tutto scomparsa. Quasi, appunto. Perché una fragile promessa resiste e tenta di crescere all’interno di un uovo custodito da una bambina senza età, dai lunghi capelli bianchi: un angelo.
Restaurato in occasione del suo quarantesimo anniversario e presentato al Festival di Cannes 2025 nella sezione Cinéma de la Plage, L’uovo dell’angelo (Angel’s Egg, Tenshi no tamago), prima opera di Mamoru Oshii come artista indipendente, torna nelle sale a partire dal 4 dicembre. Un film sperimentale, una storia visionaria e (im)prevedibile che mette in scena la vita, o meglio: quella parte di vita che ancora sopravvive e oscilla tra l’avvento di una distruzione irreversibile e il tentativo di una rinascita continuamente minacciata.
Il senso complessivo del film si potrebbe già leggere nella prima scena: due mani candide si muovono libere nello spazio prima di fondersi in un unico arto, più scuro, più anziano, più forte, le cui ossa scricchiolano sotto la morsa del pugno. Qui si manifesta la rivelazione di un’identità volutamente taciuta: quella dell’uomo come distruttore e non come salvatore. È la cattiva sorte di quella debole promessa di vita che l’angelo si porta appresso, ma anche la prefigurazione del destino di un’esistenza intera, privata insieme di fede e di ragione.
L’uomo approda sul pianeta decadente armato di fucile: un indizio che non lascia presagire nulla di buono. Neppure l’incontro con la bambina sembra invertire la rotta. Lei, abituata alla solitudine e ai mostri che nuotano sopra di lei, abita quella dimensione senza temerne il silenzio. Alla vista dello sconosciuto fugge, ma l’uomo continua a seguirla e insiste perché tenga strette le cose a cui tiene di più, o «potrebbe perderle».
A un certo punto della storia l’estraneo racconta alla bambina una versione alternativa del diluvio universale, da cui sono escluse sia la salvezza sia la luce. Gli ultimi superstiti del creato attendono invano il ritorno della colomba che hanno liberato, ma col passare del tempo se ne dimenticano, dimenticano le proprie origini e si tramutano in pietra. Dal canto suo, l’angelo mostra all’uomo il proprio rifugio, dove il fossile di un volatile è impresso nella roccia, e rivela di voler “covare” l’uovo. Così dimostra che un passato è esistito, che l’estinzione della vita non è ancora giunta a compimento e che è ancora possibile credere in un futuro.
L’uovo, inizialmente semplice elemento di curiosità, diventa progressivamente oggetto del desiderio, nonché custode del segreto dell’intera esistenza. E che cosa potrà mai fare un uomo – per di più armato – la cui sete di conoscenza supera la fede e ogni limite di ragione? Il copione lo conosciamo già, e con esso il peccato che inevitabilmente verrà commesso. Ma cosa rimane, alla fine? Siamo davvero condannati da noi stessi o esiste una speranza di redenzione più grande?
In un racconto in cui la parola è ridotta all’osso e il suono alterna rumori metallici e artificiali a musiche oniriche e lontane, firmate da Yoshihiro Kanno, è l’immagine a regnare sovrana. I colori freddi, le ombre che popolano e oscurano ciò che del mondo rimane, parlano direttamente allo spettatore e gli sussurrano che tutto “questo”, forse, è anche colpa sua.
