Yuku abita i sotterranei di un castello con la sua foltissima famiglia matriarcale: i topolini vivono tra enormi biblioteche a muro ricolme di libri. Mentre il protagonista se la spassa e danza con una selva di sorcini, fratelli e sorelle, la nonna, però, si appresta a spirare.

Con lei Yuku ha instaurato un legame profondo, simbiotico, e non si rassegna alla morte. Di notte, però, l’anziana le compare in sogno con una rivelazione: il fiore dell’Himalaya potrebbe avere effetti miracolosi, potrebbe tenerla in vita.

Non c’è certezza, ma la promessa tanto basta al giovane topolino per catapultarsi dal castello in un’avventura tanto spericolata quanto affascinante fino alla vetta più impervia del mondo; nel cammino ecco spuntare a turno amici fedeli e infidi nemici, il topo di fogna e il coniglio che scappa dalle frecce dei cacciatori, i crudeli corvi, il lupo cattivo e quello buono. 

Yuku si destreggia, ukulele in spalla, tra trappole, pericoli, sorprese e imprevisti. Quando finisce spalle al muro, imbraccia lo strumento musicale: come un novello Orfeo, anche le bestie più feroci si ammansiscono con le sue canzoni. Quando neanche la musica basta, pesca dal suo serbatoio di domande, rompicapi e indovinelli per sedare le fiere.

Insomma ci sono tutti i semi del più classico viaggio di formazione in chiave fiabesca (il giovane protagonista, il viaggio dal basso-fogna verso l’alto-monte come formazione del sé, il talento e l’oggetto magico, aiutanti e oppositori, l’obiettivo etc.) per questa animazione scritta e diretta a quattro mani (stando ai comunicati stampa) da Rémi Durin con  Arnaud Demuynck, già valente cortista che continua a rivolgersi dopo, La Chouette du cinema, a un pubblico giovanissimo. 

Storia briosa, di chiara impalcatura morale, si dota d’una fotografia naturalistica, innamorata dei toni caldi che apre il compasso dal giallo limone al rosso pompeiano. Scorrono così, un carrello laterale dopo l’altro, praterie e valli e colline e dirupi da cartolina.

Nel mezzo, però, tra Bildungroman e musical, latita la tenuta ritmica, non si nota originalità d’impianto visivo, né spessore narrativo che ravvivi la piatta ripetitività (da Pinocchio a Ratatoulille, da Andersen a Esopo) delle convenzioni di genere.

Yuku, scivolando di peripezia in peripezia verso lo snodo finale senza grosse sorprese, dà l’impressione di andare a singhiozzo, di educare senza dilettare, di accendersi e spegnersi, di armonizzare a fatica gli episodi che lo compongono, di ricavare, insomma, benzina non dal zigzagare dell’eroe (mai completamente in difficoltà) ma dalle apparizioni, sparizioni e di nuovo apparizioni dei vari attanti e attori del racconto.

Sicuramente, gli inserti musicali, che si intesta Yuku donano un qualche vitalità al racconto, bilanciando la fiaba con il musical (dallo skam, al blues, dallo swing, al boogie-woogie, con inserti persino rap), ma nella vastità di suggestioni e riferimenti, perfino nell’inclinazione animalista, anzi veganista, Yuku e il fiore dell’Himalaya rimane a metà del guado, non sfrutta i generi da cui pesca (avventura, fiaba, comin’ of age), non riesce a emozionare, intrattiene a tratti, quasi sempre si fa prevedere.

Sui titoli di coda, così, rimane l’impressione di un sincero compitino paideutico concluso senza innovare né rischiare, di una spessa patina che si deposita su tutti i livelli del film, perfino nell’intonazione morale della storia, e nella compilation musicale benché sbandierata, in fase di promozione, come il non plus ultra di questa opera film passata già all’ultimo Locarno Film Festival e all'Annecy International Animation Film Festival.