Supponi quel che non vedi, supponi quel che non sai perché non hai modo di sapere. Supponi, ovvero provi a ricostruire il tassello (o i molti tasselli) che mancano, che non si parano davanti agli occhi e che sfuggono alla deduzione dell’intelletto.

In Kafka a Teheran, film a episodi di Ali Asgari e Alireza Khatami, nove conversazioni sono tutte condotte e restituite “monofronti”, ossia con una componente mancante, occultata. Vediamo gli interrogati ma non vediamo mai gli “interroganti”, i funzionari scherani del regime teocratico iraniano. Non li vediamo quando a una deliziosa bambina che danza felice sentendo musica in cuffia costoro impongono il velo e un caffetano/vestito “armatura”. Non li vediamo, e dobbiamo supporli, nel mentre intimano silenzio e trasmettono paura a giovani (donne e uomini) pieni di vita e di entusiasmo, rei di assurde e minimali omissioni e disobbedienze.

A un regista che è un vulcano di idee, viene chiesto di tagliare quasi tutto della sceneggiatura del film che lui vorrebbe fare – tagli che sono vere e proprie censure imposte in nome di principi dittatoriali repressivi di ogni slancio creativo. A una donna alla quale è stato sottratto il suo adorato cagnolino viene ordinato con perentorio cinismo di scegliere e amare un altro cane. E così via.

Di ognuno di questi manipolati interrogati, noi vediamo sul volto dipingersi lo sconcerto, l‘indignazione frustrata (giocoforza repressa, data la circostanza di colloqui che assomigliano a quelli condotti dall’Inquisizione). Senza vedere la controparte: la proterva crudeltà degli “interroganti” scherani del regime, quella dobbiamo supporla. La percepiamo da frammenti e toni delle loro domande, ma per una efficace e precisa scelta registica non la vediamo, mai. Quella protervia, quella crudeltà, quell’insinuare false verità così da creare sconcerto e vulnerabilità nell’interrogato (come nella peggiore tradizione inquisitoriale) da spettatori possiamo e dobbiamo solo supporla. Manca il visibile, c’è poco dell’udibile, dobbiamo perciò lavorare di immaginazione, proprio come leggendo certo Kafka (ora penso a Il castello) dobbiamo supporre cosa e come sia l’autorità, quel lato della vicenda di cui il protagonista del romanzo è succube e vittima.

Kafka a Teheran
Kafka a Teheran

Kafka a Teheran

“Supporre” non vuol dire colmare un vuoto, non esattamente di vuoto si tratta, perché l’atmosfera e certe poche battute arrivano a tratteggiare chi e cosa non vediamo. Tratteggiare, ma non definire: per quello serve il nostro supporre.

“Quando non si capisce come qualcosa è avvenuto, dobbiamo allora chiederci perché è avvenuto” dice nella sua decisiva deposizione finale il figlio dell’uomo attorno alla cui morte si incentra un lungo e articolato processo giudiziario in Anatomia di una caduta (la meritatissima Palma d’oro 2023 attribuita a Justine Triet). È ipovedente, il ragazzino, e tutta la sua vita è un continuo supporre una realtà che gli sfugge completamente. Anche quando ha trovato schiantato sulla neve il corpo senza vita di suo padre, anche quella traumatica scoperta è stata da subito un supporre, andare a tentoni, data l’assenza della facoltà della vista.

Non vede, il ragazzino, eppure sente ogni cosa, determinando con la sua testimonianza la conclusione (per quanto aperta nel finale) di una vicenda giudiziaria e psicologica tutta incentrata su supposizioni. La moglie del defunto (nella straordinaria interpretazione dell’attrice Sandra Hüller) è supposta essere l’assassina, e lei stessa a sua volta deve supporre le ragioni della fine del suo uomo, così come tutte le tonalità dell’aspra cornice inquisitoria che a partire dalla tragica morte di lui le si è serrata intorno, come una morsa soffocante.

Di supposizioni si compone anche la vicenda giudiziaria attraverso i diversi personaggi che ne sono i rappresentanti. L’avvocato della difesa (ex amante dell’imputata), la magistrata che a lui fa da supporto, la corte dei giurati, coadiuvata da un impietoso e infido avvocato dell’accusa, i diversi testimoni che si susseguono nel corso del processo: tutti almanaccano, ipotizzano, suppongono. Supporre, qui, è tentativo di dirimere un caso difficile e pieno di dolore e di non detti, una vicenda fatta di amore, traumi, ambivalenze, rivalità, frustrazioni, rotture, un caso complicato e illeggibile che solo il discorso pieno di intelligenza e di innocenza pronunciato sul finale dal figlio della vittima riuscirà – chissà quanto del tutto – a dirimere e risolvere.

“Capire il perché, quando non si arriva a capire il come”: la considerazione pronunciata dal ragazzino, annichilito dal dolore eppure lucidissimo, in un lampo spazza via l’intrico di nefandezze del mondo adulto, deviato da un metodo indiziario basato su false supposizioni. Perché supporre è sforzo emotivo dell’immaginazione: lo si fa con il cuore e non soltanto con l’aridità di un’astratta ragione.