"Perché fare un film quando se ne può raccontare la storia?". Costretto da mesi agli arresti domiciliari, in attesa del processo d'appello che dovrebbe confermare o (si spera) ridurre la condanna a 6 anni di carcere e a 20 di interdizione a filmare, uscire dal paese o fare dichiarazioni pubbliche, Jafar Panahi si fa riprendere dal documentarista Mojtaba Mirtahmasb mentre racconta e mima nel salotto di casa sua il film che gli è stato impedito di realizzare.
Come Lars Von Trier, traccia sul pavimento i confini della stanzetta dove i genitori hanno rinchiuso la figlia per impedirle di uscire e frequentare l'università di Teheran. Poi, in un attimo di sconforto, si pone la paradossale domanda. E' chiara la risposta, perché a smettere di filmare il grande regista iraniano proprio non riesce. Ad un certo punto, inizia a riprendere con il telefonino l'amico che lo filma con la telecamera professionale: le due immagini contrapposte si trasformano in una drammatica e inattesa dichiarazione che, smentendo clamorosamente il titolo del video fatto pervenire ìllegalmente a Cannes ("Questo non è un film"), rivendica a voce alta diritto alla libertà individuale di espressione, soffocata dal regime iraniano. Di grande cinema ne circola parecchio nel piccolo film (75 minuti, acquistato da Cinecittà Luce per l'Italia): dalle drammatiche telefonate iniziali con gli interlocutori fuori campo (l'avvocato che prevede una riduzione di pena ma non la sua cancellazione, la regista Rakhshan Bani-Etemad che propone di far circolare una petizione di cineasti iraniani a suo favore), alle presenze incongrue di animali che punteggiano il racconto come in un film di Herzog (un iguana domestico, un cagnetto nervoso). Sino alla straordinaria sequenza finale, con Jafar chiuso nell'ascensore con un ragazzo che si ferma ad ogni piano per raccogliere i sacchetti di immondizia dei condomini.
Il regista fa parlare il custode, che racconta del suoi molti lavori per pagarsi gli studi ed evoca la sera dell'irruzione della polizia, venuta ad arrestare il regista. Il piano sequenza si arresta sulla soglia del palazzo, con l'inquadratura della strada invasa dai fuochi artificiali di Capodanno, stigmatizzati dalle autorità religiose. L'incendio evoca ben altri conflitti di recentissima memoria, mentre i titoli di coda provvedono a ringraziare i cineasti e i sostenitori del regista, i cui nomi sono sostituiti da tanti puntini protettivi. Il senso ultimi del film risiede forse nel citazione di un detto di Zoroastro, evocato da Mirtahmasb nella presentazione: "se devo lottare contro l'oscurità, non impugno una spada ma accendo una candela". Lui, Panahi, fa un bellissimo film sull'impossibilità di filmare, che equivale a un grido d'aiuto rivolto a tutti gli spettatori.