Una vacanza in Scandinavia, nel paesaggio dai colori freddi della costa svedese: una location algida per un film che di emozioni fa rigorosa autonomia, nella miglior tradizione di quel cinema europeo intimistico in cui l'umanità silente ed ermetica si muove lenta in un universo di simbolismi noiosi e scontati. Ne Il viaggio di Jeanne, i rappresentati di questo popolo di celluloide sono un'anonima adolescente francese e suo padre, che l'ha trascinata verso le coste del Nord Europa alla ricerca di un fantomatico tesoro vichingo. All'arrivo in Svezia, però, la casa prenotata per il soggiorno è ancora occupata dalla padrona e da una sua amica. Un incontro imprevisto e fortuito, che aiuterà a smuovere le acque nel rapporto apparentemente perfetto tra padre e figlia.
Di sicuro apprezzabile la tematica del recupero della propria identità da parte di una ragazza cresciuta all'ombra di un padre iperprotettivo, ma ancora ferito dall'abbandono della moglie per togliere le briglie ai propri sentimenti. Un film in cui il climax viene raggiunto attraverso la distruzione del cadavere di una mosca, lascia però molti dubbi sulla sua reale capacità di comunicare qualcosa di nuovo e di fresco, attestandosi così su quella indifferenza e mediocrità che non aiuta il rilancio dell'arte cinematografica contemporanea.