Nella mole esorbitante delle patrie trasposizioni ancora nessuno aveva pensato a I Vicerè di Federico De Roberto: è un punto pesante da segnare sul tabellino di Roberto Faenza. A lui va il nostro sincero grazie, per aver adattato il capolavoro dello scrittore partenopeo a oltre un secolo dalla sua edizione, datata 1894. Faenza ce l'ha fatta, laddove in molti avevano fallito, tra cui Roberto Rossellini, come recentemente rivelato dal figlio Renzo. Innumerevoli le difficoltà che avevano fino a oggi sconfessato i tentativi di riduzione: accanto alla svalutazione coeva dell'opera di De Roberto, che in Benedetto Croce trovò un feroce stroncatore, pesano fattori intrinseci, di forma (densità narrativa, struttura corale a incastro, peculiarità stilistiche difficilmente traducibili su schermo) e contenuto: anticonformismo, triplice attacco istituzionale: Stato, Chiesa e Famiglia, e, paradossalmente, l'irrefutabile modernità delle pagine derobertiane. Faenza esegue uno slalom quasi impeccabile tra queste insidie, maneggiando contemporaneamente mannaia, per rendere commestibile sullo schermo la tranche de vie del romanzo, e fioretto, annacquando in parodia, grottesco e divertissement il potente j'accuse socio-politico di De Roberto. Inevitabile escamotage per tradurre in audio-visivo la prosa sulfurea dello scrittore catanese d'adozione? Non crediamo, il regista dichiara l'assoluta estraneità tra la versione cinematografica e quella estesa per la televisione dei suoi Vicerè, ma il confine è in realtà molto labile. Punti d'appoggio del cine-ritratto della famiglia Uzeda in interno siculo ottocentesco sono costantemente drammaturgia ed estetica televisive, ovvero personaggi in bassorilievo psicologico, carta bianca alle scene madri, recitazione impersonale e molteplici deroghe stilistiche: montaggio paratattico, abbondanza di primi piani, macchina da presa scolastica.

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