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Hui jia (Back Home)
Nel torpore ipnotico che accompagna la visione potrebbe non essere facile accorgersi subito di un dettaglio: in Hui jia (ennesima incursione di Tsai Ming-liang nel mediometraggio) non ci sono le persone. Quasi per niente. Si parte con un doppio incipit, che come in passato sembra tematizzare l'esperienza del suo slow cinema: un cane intrappolato al centro di una giostra in movimento (ricordate lo scarafaggio inchiodato dal coltello di Hsao Kang in Rebels of the Neon God?); e il sonno pacifico di un uomo che dorme in pullman, forse "tornando a casa" come recita il titolo internazionale. Poi per almeno mezz'ora l'elemento umano scompare, sostituito da inquadrature fisse di case di campagna.
Nessuno dei due elementi (la casa e l'assenza dell'uomo) dovrebbe lasciare indifferenti davanti a un film di Tsai. Autore i cui ultimi lavori, a forza di misurare la rarefazione del suo cinema, rischiano a tratti di sfuggire a una collocazione poetica. Come se la critica giudicasse che, a forza di museificarsi e flirtare con l'installazione, il maestro malese/taiwanese avesse smesso di parlare del mondo, di raccontare.
Se sul godimento è impossibile sindacare, la tesi per cui i film di Tsai si sarebbero progressivamente resi incomprensibili, perdendo quel legame anche emotivo che attraversava come un filo i capolavori degli anni '90 e '00, va rigettata con fermezza. Semmai, la continuità è anche troppo evidente.
Dopo gli inizi all'insegna di un realismo sociale estraniato, che prendeva il polso a una crisi profonda delle relazioni passionali e familiari nella Taiwan contemporanea, quel concetto di reciproca estraneità (perfino invisibilità) non ha fatto che estremizzarsi film dopo film, trasformando anche stilisticamente il suo cinema in direzione di una catatonia che annulla esistenzialmente i protagonisti.
Di questa progressione la casa è polo tematico fondante, sul cui rapporto visivo e spaziotemporale coi personaggi si misura la maturazione del cinema di Tsai. Nei primi film, quasi tutti ambientati nello stesso appartamento ripreso da angoli e con illuminazioni diverse, la scrittura visiva della solitudine era essenzialmente affidata al decoupage: caso estremo, la folgorante prima mezz'ora di Il fiume, dove variando inquadrature e limando i dialoghi Tsai riusciva a raccontare un nucleo familiare come se i tre componenti non si incontrassero mai, non vivessero sotto lo stesso tetto e non si conoscessero nemmeno.
A partire da Che ora è laggiù (2001) prima sua opera a tematizzare esplicitamente la morte, il realismo si colorava di un elemento quasi fantastico: a suggerire la solitudine e lo scacco esistenziale arriva ora il motivo del fantasma, reso visivamente non più tanto con l'organizzazione delle inquadrature, ma con la dissolvenza: i personaggi di Tsai sono spettri che scoloriscono sullo sfondo delle proprie case, ormai compiutamente haunted houses quando non veri e propri non-luoghi come nel nomadico Stray Dogs (2013).
A fronte di quest'evoluzione, l'arrivo di un film quasi senza persone, composto perlopiù di inquadrature di case diroccate e abbandonate nel Laos rurale, non solo non fa strano ma appare la conclusione più logica. Non per niente Tsai sceglie di riprendere dei ruderi, estremizzando forse all'ultimo grado quella scomparsa dell'umano in cui ha radici la disperata ricerca sentimentale dei suoi protagonisti.
Anche quando le persone ci sono, non le conosciamo mai al di là della loro esteriorità; non arrivano al grado minimo di "personaggi", che Tsai gli concedeva perfino in un film già estremo come Days (2020).
Bambini in bicicletta, famiglie che cucinano, persone in macchina o in motorino attraversano appena il campo visivo, ridotti a puri fenomeni o echi in lontananza. Il mondo di Tsai è sempre più un fantasma.