Il legame col sottosuolo. L'eredità dei padri, nel ciclo delle vite e delle morti. L'armonia e la lotta, della natura e degli uomini. Il mito, un varco nel mondo. E una città: Nara. Alfa e omega del cinema di Naomi Kawase, non a caso: a Nara poggiano le fondamenta del Giappone. La storia prima della sua storia. Hanezu - in concorso - porta in superficie il rimosso di una civiltà, come fa l'escalatrice con le rocce degli avi. E come il volto della nuda, fredda, roccia, anche quello della terra della Kawase resta enigmatico, va penetrato. La regista nipponica - già Grand Prix Speciale della Giuria quattro anni fa con Mogari No Mori - rappresenta l'altra faccia del Giappone qui a Cannes, perché se Takashi Miike puntava il dito su una tradizione che occorre gettarsi alle spalle per un nuovo Sol Levante, la Kawase vive con preoccupazione lo sfilacciamento tra passato e presente.
Ma il suo cinema, come sempre, va oltre il messaggio, al punto da rinunciare a una storia da raccontare.
Esili linee narrative - tracciate tutte attorno alla figura di uno scultore (non a caso colui che lavora la pietra, elemento centrale di Hanezu) - vengono percorse fino al punto in cui si perdono, aprono porte, si confondono con l'inenarrabile storia degli insetti, dei fiumi, della pioggia, delle montagne. Non c'è un centro in questa narrazione, non c'è nemmeno una narrazione: ma la confluenza di figure e motivi che tornano, come se lo spazio abitato fosse comune all'organico e all'inorganico, ai vivi e i morti.
Un film ostico, enigmatico, costruito su immagini che recano l'eco di un mondo lontano. Un cinema di fascino e mistero che chiede di essere abitato più che compreso. A stomaco vuoto e la fame nell'anima.