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Funeral Casino Blues
Basta leggere le note di regia di Funeral Casino Blues, film in concorso Orizzonti all’82esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, diretto dal tedesco Roderick Warich per capire le radici dentro cui si fonda il suo film, interamente girato in Thailandia.
A partire dal titolo-omaggio a Peking Opera Blues di Tsui Hark, la passione per la trilogia Chinese Ghost Story e l’ossessione per il cinema di Hong Kong e Twin Peaks.
Funeral Casino Blues si colloca proprio dentro quell’immaginario nel raccontare la Bangkok di anime dimenticate, outsider che non hanno neanche il tempo di fermarsi a sognare qualcosa di meglio, uscire da quegli inferi delle luci al neon lampeggianti o sgranate degli interni di hotel per turisti solitari ed “accompagnatrici” locali.
Tra queste c’è Jen (Jutamat Lamoon), fidanzata in prestito di molti stranieri in visita, costretta a concedersi per riuscire a guadagnare abbastanza, oltre allo stipendio da receptionist di un hotel, per coprire i debiti non suoi ma della sua famiglia. Si definisce un bancomat per i suoi familiari ed il suo è un lamento concreto.
Durante uno di questi appuntamenti non desiderati, la situazione sta per degenerare in violenza. Jen viene salvata dall’intervento del barista Wason (Wason Dokkathum), schivo, silenzioso, anche lui essere a lei affine per debiti e disillusioni.
Warich li fa innamorare, nella maniera più concreta ma romantica che ci sia, lentamente, mentre entrambi sono costretti a vagabondare in quelle situazioni precarie di vita, senza poterle abbandonare neanche un attimo, neanche per amore.
Si divide in tre capitoli ed il primo, il più lungo, si dedica a Jen e Wason e una cena in cui, per la prima e unica volta in tutto il film, i due ( soprattutto lei) osano dichiarare ad alta voce i loro desideri: vincere alla lotteria, viaggiare, comprare una casa, una fattoria ed essere liberi di credere negli spiriti, nei fantasmi e negli amuleti.
È sempre buio nella Bangkok di Wason e Jen, al massimo c’è spazio per la prima luce del mattino, una scelta molto chiara e realistica per Roderick Warich che sa benissimo che non c’è spazio nel suo film e i personaggi che racconta per un’esistenza al di fuori dello schermo di un cellulare, una sala da gioco, l’interno di case stipate e mal condivise.
Funeral Casino Blues conserva una sua poesia ed a scriverla è la musica, la colonna sonora di John Gürtler, già premio EFA nel 2019 per System Crasher, persistente in tutto il primo capitolo, poiché avvinghiata a Jen e Wason, malinconica, quasi romantica ma dalle note minori pervasive, anticipatorie di quello che verrà.
Ed infatti quando Wason, sommerso dai debiti, è costretto a fuggire via da Bangkok, Jen scompare e nessuno ha più sue notizie. Pim, la sua migliore amica e compagna di sventure, richiama Wason e gli chiede una mano per ritrovarla. Inizia un’immersione ulteriore nell’oscurità, a caccia di quello straniero che la cercava incessantemente e di cui non vedremo mai il viso ( perché sono tutti uguali, hanno tutti la stessa faccia).
Per il secondo e parte del terzo capitolo la musica lascia quasi del tutto il passo al picchiettare incessante e continuo delle dita sul cellulare o ai rumori della strada, si insinua nella storia e non lascia mai in pace.
Pim e Wason scoprono tutte le possibili carte del passato di Jen, una famiglia che l’ha masticata e sputata, un corpo che forse non le appartiene più del tutto.
Funeral Casino Blues, si fa travolgere da quella Thailandia tanto moderna quanto connessa alla dimensione spirituale e ci lascia sospesi a cercare di capire se, in fondo, non siamo sempre stati dentro un ghost movie.
La Jen che pensavano e pensavamo di conoscere forse non è mai esistita, forse è uno spirito che vaga nei dormiveglia, oppure, invece, è tornata a vivere la notte con il suo Wason. Il film finisce nel buio da dove è iniziato accompagnato da un canto d’addio corale, come in una veglia funebre.
Sarebbe una perfetta ballata triste, realista e immateriale Funeral Casino Blues, se non fosse per il timore del suo regista di perdersi del tutto dentro quel mondo connesso con il soprannaturale che tanto lo affascina. Warich non riesce sempre a sopprimere il desiderio di spiegare le cose, fidandosi poco dello spettatore e dimenticando che i silenzi, a volte, sono sacrosanti.