Si è scritto che è un cinema di batticuori, occhi inumiditi, fremiti e dissesti sentimentali quello del greco Christos Nikou che, dopo l’Apple d’esordio, continua rovistare nell’emotività umana con puntiglio quasi da psicanalista, ansioso di conferme, qui scientifiche, sull’amore.

Tutto vero e giusto, ma dietro la patina del romanticismo più smaccato, dietro l’ispezione più scrupolosa del languore, fiorisce una sotterranea - contemporanea non distopica - meditazione sulla società del controllo, sulla pervasività inconscia nel libero arbitrio di un mondo preordinato, algoritmico, rassicurante dove anche la libertà affettiva, per essere vissuta, va prima diagnosticata. 

È questo il ruolo dell’Istituto dell’Amore: il sacro ufficio che rassicura e distrugge coppie. Basta che gli amanti si asportino, gemendo, le unghie, le infilino in un macchinario e in un batter d’occhio ecco la verità imperitura. Positivo, negativo. 0%, 50% o 100%. Il destino amoroso di tanti fidanzati è appeso alle cifre di questo Tecno-Cupido oracolare.

Nell’incertezza, allora, lo consultano amanti d’ogni età, sesso, genia. Anna (Jessie Buckley) e Ryan (Jeremy Allen White), però, da tempo hanno fatto sanguinare le rispettive falangi. A suon di quattrini, sua Incontestabilità il macchinario ha emesso il verdetto imperituro: compatibili al 100%. Il malinconico Rayan si acquieta, Anna no. Nonostante la statistica, il rapporto non soddisfa e non decolla, i dubbi aumentano, lei diventa assiste di Amir (Riz Amed), educatore sentimentale dell’Istituto, nonché reggente del macchinario, nonché attraente, indifeso trent’enne affamato di quello stesso amore che va a stanare nei suoi clienti.

Tra una prova sottacqua e una in paracadute, tra i due scocca, ovviamente, la scintilla ma il sentimento è congelato sotto una coltre di moralismo e obbedienza tecnologica. Anna, infatti, si rimette a puntellare il rapporto con Ryan, Amir se ne inventa uno con la vicina. Intanto la tecnocrazia rosa sfascia e cementa coppie, la ragazza continua a mutilarsi le dita e Nikou fa lievitare la sua allegoria soffusa e sospirosa che, sul finale, si prende la rivincita su apparenti claustrofobie (che pure restano) ed esitazioni di scrittura (dello stesso regista con Stravros Raptis).
Perché al regista greco non interessa mettere la ceralacca a un sentimento tra Anna e Amir tanto dissimulato quando inesorabile. Vuole fare un cinema da laboratorio, estrarre in vitro, valorizzare e restituirci l’inconscio, l’esitazione, gli infingimenti, le moine, le titubanze delle sue creature. Lì dove alligna la Verità privata perché incontestabile. E viceversa. 

Costruendo un mondo di tribù sentimentali, Nikou, simpatetico e sentimentale, si prende tutto il tempo che può per inquadrare l’attraversamento, il transito, la liberazione dalla tirannide della tecnica, la libertà che passa per la menomazione, la riscoperta dell’intimità contro la scientificità. Insomma, un film sull’emotività come valore, sulla statistica come sua contraffazione.

È proprio in questo secondo livello, alluso, ma sempre presente che il Kammerspiel in interni (case, camere, letti e uffici asettici e chiaroscuri), angoscioso e idealista, oltre la banalità del triangolo (isoscele) amoroso si staglia e si fa discorsivo e critico, sociale e attuale, morale e dialettico. Travagliato e liberatorio.