“I figli invecchiano. Ma non invecchiano loro. Invecchiano te. […]

[…] I figli infine ti invecchiano perché sei già vecchio. In paesi dinamici ed evoluti, dove la democrazia non è un concetto così imprendibile come da noi, i genitori hanno 25 anni, sono forti, flessibili, giustamente incoscienti. […]

[…] Ma più di tutto, conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l’ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate.

Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande”.

Mattia Torre
Mattia Torre
Mattia Torre
Mattia Torre

Quando Valerio Mastandrea portò in tv (da Alessandro Cattelan) il monologo “I figli invecchiano” di Mattia Torre la cosa ebbe un’eco inaspettata. Rimbalzi online, condivisioni social, tutto questo perché, *semplicemente*, emerse una volta di più la straordinaria capacità del suo autore di parlare in prima persona di qualcosa che lo riguardasse davvero. E quel qualcosa era da sempre sotto gli occhi di tutti, perché riguardava ciascuno di noi.

Con Mattia Torre, in fondo, è sempre stato così. Dai lavori teatrali (che Mastandrea, spesso con Valerio Aprea, ha portato in scena) all’exploit televisivo di Boris (format capace di scardinare, allora, l’ideale di una serialità italiana muffa e stantia), dalle incursioni cinematografiche (Piovono mucche e il più recente Ogni maledetto Natale, in mezzo l’adattamento per il grande schermo di Boris, appunto), fino a La linea verticale, serie scritta per la Rai in cui Mastandrea “metteva in scena” la malattia e il ricovero (reali) dello stesso Torre, la percezione è spesso stata quella di ritrovarsi, per un verso o per l’altro, in quella battuta amara, in quella situazione grottesca ma tremendamente vera, in quel dialogo apparentemente folle ma di una normalità disarmante.

Ecco, Figli “di Mattia Torre”, per la regia di Giuseppe Bonito, non è solamente il film-testamento di un autore portato via troppo presto da una malattia infame (lo scorso luglio), ma una sorta di calibrato compendio dove si muovono, prendono vita, le parole e i pensieri che nell’ultimo ventennio hanno caratterizzato quel particolare sguardo sul mondo, sulle cose, sul nostro paese, le nostre idiosincrasie e contraddizioni, ma anche la nostra tigna e la capacità di resistere, anche nelle situazioni più disperate.

Il regista Giuseppe Bonito Foto Andrea Pirrello)
Il regista Giuseppe Bonito Foto Andrea Pirrello)
Il regista Giuseppe Bonito Foto Andrea Pirrello)
Il regista Giuseppe Bonito (Foto Andrea Pirrello)

Proprio come accade a Nicola e Sara, interpretati da Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi (in passato coppia nella vita, per la prima volta coppia sullo schermo), genitori di Anna e adagiati sul filo di un equilibrio apparentemente inattaccabile. Basterà mettere al mondo il secondo figlio, Pietro, la cui nascita finirà per stravolgere la loro esistenza, compresa quella della primogenita: “Stavamo tanto bene in tre, perché avete dovuto cambiare tutto? Siete un macello”.

Sempre giocato sul filo di un’ironia sottile ed esilarante, arma con cui tenere a bada le derive di un sottotesto che potrebbe sfociare in tragedia da un momento all’altro, il film sorprende – e non poco – per la capacità di mantenere intatta la cifra autoriale del suo genitore primario (Torre) senza però finire per rimanervi sottomesso.

Valerio Mastandrea in Figli Foto Andrea Pirrello
Valerio Mastandrea in Figli Foto Andrea Pirrello
Valerio Mastandrea in Figli Foto Andrea Pirrello
Valerio Mastandrea in Figli (Foto Andrea Pirrello)

Il regista, Giuseppe Bonito, avvantaggiato evidentemente dal fatto di essere stato per anni a capo della seconda unità nei vari progetti di Torre, è bravo a mettere in scena questa storia che non procede secondo la solita struttura ad intreccio, che non vuole rispettare i dettami dei tre atti classici, ma che piuttosto vuole essere paradigmatica, scandita da capitoli che vanno a comporre una sorta di saggio sulla dissoluzione della coppia.

Realtà e distorsione soggettiva della stessa, incursioni nell’onirico e nell’inconscio, salti "nell’iperuranio” (come quando la pediatra-guru, interpretata da Daria Deflorian, suggerisce a Sara e Nicola di abbandonare per un po’ il lavoro: “Non avete una rendita fissa? Un appartamento al mare o in montagna da affittare?”) e “l'ovo alla cocca”, asso nella manica della tata ciociara (nella vita reale una fruttivendola), unica a spuntarla tra un gruppetto di candidate improponibili e agghiaccianti…

Figli è tutto questo, è la rappresentazione di un hic et nunc dove qualsiasi padre/madre finisce per sprofondare come risucchiato da uno specchio che ti fagocita, frullandoti e risputandoti fuori tritato, il brivido sottopelle dei “festifici” (“partiamo per EuroDisney, ora, subito, stasera!”, piuttosto che fare un ulteriore passo in avanti) e quella finestra da cui tuffarsi nel vuoto – metaforicamente – salto che a turno agognano Nicola e Sara per fuggire dalle solite discussioni, dalla casa sepolta in un disordine soffocante, con la Pathétique, la sonata n° 8 di Beethoven utilizzata “per convenzione” a contrappuntare i pianti notturni ed improvvisi del bambino.

Paola Cortellesi in Figli Foto Andrea Pirrello
Paola Cortellesi in Figli Foto Andrea Pirrello
Paola Cortellesi in Figli Foto Andrea Pirrello
Paola Cortellesi in Figli (Foto Andrea Pirrello)

La cifra del surreale, quel rifugiarsi rapsodicamente negli spazi bianchi (come già avveniva ne La linea verticale) per far muovere altri attanti (i vari Aprea, Calabresi, Sartoretti) presi “a modello” per altre tipologie di genitori, lo scontro generazionale (quello con i nonni) messo in scena con la consueta attitudine di portare all’estremo il luogo comune per smontarlo dal di dentro, l’illogicità di stati d’animo inspiegabili (quel non vedere l’ora di poter evadere dalla gabbia di una routine massacrante per poi ritrovarsi, neanche mezzora dopo, seduti a fianco in un ristorante a guardare le foto dei tuoi bambini sul telefonino, “straziati da una nostalgia senza senso”…).

Essere una coppia, avere dei figli, ipotizzare tabelle settimanali con la divisione dei compiti, chi porta a scuola la grande, chi va a comprare le medicine, sentirsi un padre supereroe per aver trascorso una serata a casa, da solo con i bambini!, con la moglie fuori, travestirsi da idioti alle feste in maschera dei compagni di classe della primogenita, le stramaledette chat whatsapp "dei genitori", spendere uno sproposito dalla pediatra semplicemente per farsi dire “cose che avevi sotto gli occhi ma chissà per quale motivo non avevi mai pensato”… È tutto vero, è tutto comicamente/drammaticamente così.

Figli - Foto Andrea Pirrello
Figli - Foto Andrea Pirrello
Figli - Foto Andrea Pirrello
Un'altra scena del film (Foto Andrea Pirrello)

Per funzionare sullo schermo, però, non sarebbe bastata una canonica, semplice trasposizione di questa realtà: Figli vince la propria scommessa anche, e soprattutto, perché può contare sulla straordinaria alchimia dei suoi due protagonisti (mai così brava, e credibile, Paola Cortellesi), chiamati ad alimentare un amore senza esclusione di colpi, sempre sull’orlo del precipizio, destinati però a restare, abbracciati in un sorriso luminoso e improvviso, certificazione di una resistenza tanto romantica quanto rivoluzionaria.

“D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande”.