Come i deserti che avvolgono N'Djamena, capaci di rendere opache, riarse e sabbiose le strade cittadine, le case e le baracche, così da lungo tempo è diventato arido e oscuro il cuore di Atim e del nonno, il cuore di tutti i chadiani che hanno vissuto, meglio subito, una guerra civile lunga 40 anni capace di mietere oltre 40.000 vittime. Rarefatto, dunque, è Daratt, ossia Dry Season, cioè Stagione asciutta, del regista Mahamat-Saleh Haroun, che col terzo lungometraggio ha portato il suo paese, il Chad, per la prima volta in concorso all'ultimo Festival di Venezia. Quando sulle spalle di un'intera nazione grava una storia di sangue e violenze, una delle tante storie di sterminio che hanno martoriato e continuano a martoriare il continente africano, chi si può davvero ritenere esente dal desiderio di vendetta? Atim e il nonno devono farsi giustizia per trovare una pace: l'assassino del padre-figlio è impunito, circola libero nella capitale. Va giustiziato secondo la giustizia che fa capo non alle leggi dell'uomo, ma a quelle non scritte della riparazione dei torti subiti. Un mezzo che indirettamente e inefficacemente cerca di contrastare lo stesso potere in carica nel Chad, quando offre la strada accidentata dell'amnistia generale. Atim lo trova, l'assassino diventato panettiere, ma gli eventi, per tutti, saranno imprevedibili. C'è una verità che comincia a farsi strada nel cuore devastato del ragazzo e in quello freddo dell'assassino, vi entra lavorando l'animo, come il lievito che entrambi usano per preparare, ogni giorno, il pane. Lontano dall'esprimere il classico dualismo vittima-carnefice, la regia, nei silenzi e con gli sguardi, scopre l'altra faccia di Atim. Il perdono è all'opera. Lievita. Espressioni di grande e sofferto realismo urbano e africano accompagnano la conversione, pudica e nascosta, del ragazzo: sarà una goccia, probabilmente, nell'oceano di violenze e guerre che devastano l'Africa, ma è una goccia dall'enorme valore simbolico, dall'incontestabile spessore umano, dal forte sapore di speranza.