"This is the way, step inside". Impossibile non sentire un brivido. Le parole che aprono l'ultimo album dei Joy Division conservano ancora oggi il loro fascino sinistro. Scritte dall'anima nera della band inglese, Ian Curtis, è un invito a prendere parte alla fine di un viaggio: il suo. Il 18 maggio 1980 Curtis fu trovato impiccato nella cucina della propria casa di Macclesfield. Aveva 23 anni. Nessun dubbio: suicidio. È a quel momento, così prevedibile nella sua logica e allo stesso tempo dannatamente impenetrabile, che Control, finto biopic sul tragico eroe della musica dark, ci riporta. 6 anni nella vita di Ian, dal '74 a quel fatidico giorno di maggio, che dalle memorie della moglie di Curtis (qui restituita da un'intensa Samantha Morton) sfilano con progressione ineluttabile fino al gesto che vanifica tutti gli altri. Vediamo il Curtis inquieto della vita di provincia, il Curtis impulsivo che sposa la prima ragazza che abbia mostrato interesse per lui, il Curtis leggendario che contorce il suo corpo come uno sciamano sul palco, il Curtis a terra piegato dalle convulsioni di un male (l'epilessia) che lo sprofonderà irrimediabilmente. Impressiona e disturba la somiglianza di Sam Riley con il cantante, ma l'elemento nuovo e forte del lavoro di Corbijn – fotografo che ha realmente conosciuto la band e immortalato altri grandi della musica rock - è un altro. Lontano dal climax di altri film musicali, Control punta sul rifiuto di ogni ipotesi di racconto e di approccio emozionale, per un accumulo di episodi chiave, performance live e campi congelati in un livido bianco e nero che sono sincopi dell'angoscioso canto di un'anima nel suo lento e inesorabile crollo. Corbijn non ci chiede di capire, perché "non esiste segreto più grande della sofferenza", né forse di sentire, perché è impossibile commuoversi dinanzi a uno spettro che canta. Ci chiede di assistere, come solo si può fare di fronte a una vita che lascia, atterriti testimoni di un mistero che vuole solo compiersi, e tace.