Allontanato dall'esercito danese in seguito ad alcune dicerie sul suo conto, Lars (Thure Lindhardt) torna a casa dei genitori, che non hanno mai fatto molto per dimostrargli amore e stima. Poco dopo, quasi senza volerlo, entra a far parte di un gruppo di neonazisti. E quando si trasferirà nella casetta vicino al mare che Jimmy (David Dencik), uno dei "camerati", sta ristrutturando, tra i due nascerà qualcosa di più che una semplice, virile amicizia. Mettere d'accordo nazismo e omosessualità, lo sanno loro per primi, non è però cosa di questo mondo.
Annunciato come il film scandalo del Festival di Roma - che lo ha poi premiato con il Marco Aurelio d'Oro - Brotherhood dell'italo-danese Nicolo Donato (esordio al lungometraggio per il grande schermo) mantiene in qualche modo le promesse della vigilia ma, cosa ben più importante, sorprende per coraggio e capacità di tenere a bada retorica e luoghi comuni. Sulla falsariga di Yossi and Jagger (film del 2002 diretto da Eytan Fox ed incentrato sul rapporto omosessuale di due soldati israeliani), Brotherhood - racconto di "individuazione", prima che di formazione - parte da premesse se possibile ancora più estreme, provando a contrapporre l'illogicità di un amore viscerale ed impossibile alla rigida ottusità di un microcosmo formato sull'ideologia del Terzo Reich e composto da picchiatori omofobi e razzisti: "I froci non ci piacciono", dirà lo stesso Jimmy a Lars dopo una notte d'amore.
Scoprire di essere nulla più, nulla di diverso rispetto al bersaglio di tante azioni passate sarà drammaticamente doloroso, ma necessario. Così come chiudere il film in una stanza d'ospedale, sperando in una catarsi che non preveda, almeno per questa volta, la morte.