Parola d'ordine: seguire il flusso delle immagini e non cercare di afferrare a tutti i costi le sfumature di una storia impossibile da penetrare. E' l'unica chiave possibile per apprezzare la prima volta di un titolo cingalese in concorso a Venezia. Ahasin Wetei (Between Two Worlds) di Vimukthi Jayasundara è il classico film che sfugge a ogni lettura da parte dello spettatore occidentale, forzatamente a digiuno delle benché minime conoscenze relative alla cultura e alle tradizione dello Sri Lanka.
Non che conti molto se, come detto, ci si lascia catturare dalla visionarietà espressa dal regista. Per il resto anche raccontare la trama diventa un'impresa, giacché la vicenda si dipana attraverso diversi momenti narrativi durante i quali viene messa in scena una leggenda tradizionale che ha per protagonista un ragazzo, discendente da nobile famiglia ma abbandonato fin da piccolo, che alla fine ritroviamo rintanato nell'incavo di un albero e là destinato a passare i propri giorni.
Se la metafora è sfuggente, i corpi che attraversano lo schermo sono estremamente espressivi e perfettamente integrati in una natura magniloquente e possente che riporta costantemente a una primordialità dove i sentimenti sono vissuti al grado zero. Non a caso nel corso della vicenda mito e realtà si fondono continuamente come in una tragedia greca. Ahasin Wetei è il classico film definibile "da festival": complesso, visivamente straordinario, criptico quel tanto che basta per non far scemare la curiosità al suo riguardo anche dopo molte ore. Escluso che possa essere anche adatto a un vasto pubblico, ma è proprio questa una delle ragioni per cui Muller non ha sbagliato ad accoglierlo in concorso. La vita di certe opere, seppur squisitamente festivaliera, deve essere assolutamente preservata.