Il 10 dicembre scorso, in Commissione Cultura alla Camera, è cominciata la discussione del disegno di legge per l’istituzione dell’Agenzia per il cinema e l’audiovisivo, prima firmataria Elly Schlein. Una specie di “CNC all’italiana”, un ente pubblico dotato di autonomia organizzativa e finanziaria a cui trasferire una parte consistente delle funzioni oggi in capo alla Direzione generale Cinema del Ministero della Cultura. Un’idea che sorpassa a destra la suggestione del “Ministero del Cinema” lanciata a suo tempo da Pupi Avati e poi fatta propria da Forza Italia; e a sinistra la linea conservativa di Lega e Fratelli d’Italia, orientate a intervenire per via di correttivi sull’impianto vigente, pur con accenti diversi e sfumature interessante sul ruolo e sui poteri della DG Cinema.

Immaginare che la pdl Schlein possa davvero diventare legge, oggi, è pura fantasia. Più probabile che l’Italia vinca i prossimi mondiali di calcio. Ma ci dà l’opportunità di accendere i riflettori sulla questione non piccola della governance del nostro cinema, cioè il perimetro delle regole e il potere di applicarle. Tanto più che il sottosegretario con delega al cinema, Lucia Borgonzoni, ha lasciato intendere in alcune occasioni che cambiamenti sono all’orizzonte.

Elly Schlein, Comi/Fotostore; @Webphoto
Elly Schlein, Comi/Fotostore; @Webphoto
Milano, Trasmissione Tv Che Tempo Che Fa - Nove . Nella foto Elly Schlein (Fotostore)

Il quadro è mosso. Il tetto al tax credit e i tagli al fondo cinema (da 700 a 610 milioni nel 2026 e a 500 milioni dal 2027) hanno messo in agitazione un intero settore. In un’annata non certo eccezionale. Anche se i numeri del botteghino migliorassero a fine anno grazie ad Avatar e Zalone e il 2025 pareggiasse il 2024, resterebbe sempre quel 30 per cento di pubblico perso rispetto al periodo pre-Covid. È da ritenersi ormai un dato strutturale? Il cambio di paradigma è l’ineluttabile presupposto che sprona a un modello diverso di governance?

Sul tavolo non c’è una sola ricetta, ma un ventaglio di ipotesi spesso alternative, talvolta concorrenti, sempre esposte al rischio di letture partigiane.
Da una parte c’è l’Agenzia per il cinema e l’audiovisivo invocata dal PD. Dall’altra, al Senato, Maurizio Gasparri rilancia con un disegno di legge per l’istituzione di un vero e proprio Ministero per il cinema, gli audiovisivi e il digitale. Nel frattempo, a settembre, la maggioranza di centrodestra ha fatto approvare alla Camera una mozione – la 1-00489, a prima firma Mollicone – che trasforma il Consiglio superiore del cinema e dell’audiovisivo in un Forum del cinema e dell’audiovisivo con funzioni non solo consultive.

Che cosa c’è davvero in gioco

Per capire la posta in gioco, bisogna partire dal Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo, creato dalla legge 14 novembre 2016, n. 220. L’articolo 13 – come modificato dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207 – stabilisce che il Fondo, alimentato dagli introiti fiscali generati dal settore e parametrato all’11 per cento delle entrate effettivamente incassate dal bilancio dello Stato, non può scendere sotto la soglia di 700 milioni di euro l’anno. È il serbatoio che alimenta contributi selettivi e automatici, sostegni alla promozione, investimenti per le sale e per la digitalizzazione del patrimonio.
Accanto al Fondo, c’è il grande capitolo del tax credit. La legge 220/2016 ha costruito un sistema di crediti d’imposta che riguarda l’intera filiera: produzione, distribuzione, sale, industrie tecniche, persino imprese non appartenenti al settore che investono in contenuti audiovisivi. Il credito d’imposta può coprire, a seconda dei casi, tra il 15 e il 40 per cento dei costi ammissibili, trasformando lo Stato in socio di minoranza decisivo.

È su questa combo Fondo-tax credit che si concentra la pressione del settore: ANICA, ANEC, CNA, 100autori e le altre associazioni sanno benissimo che, senza una leva pubblica stabile e prevedibile, la gran parte dell’industria italiana – soprattutto quella indipendente – non reggerebbe la concorrenza né interna né esterna (streamer inclusi).

La questione dei soldi rimanda a quella del potere. Oggi il cuore della macchina è la Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura. Attorno alla Direzione ruotano però diversi cerchi concentrici: la politica di governo (leggi di bilancio, nomine, indirizzi), il Parlamento (che può ridisegnare perimetri e imporre scelte di metodo), le commissioni consultive e i comitati di esperti, le associazioni di categoria che siedono – formalmente o informalmente – ai tavoli dove si negozia.

Visto da fuori, l’impressione è quella di un ecosistema complesso, a tratti opaco. Ma per chi ne ha familiarità, saper decifrare il linguaggio dei decreti, conoscere in anticipo l’orientamento di una commissione, avere un canale diretto con l’amministrazione, può fare la differenza. Ecco perché un eventuale spostamento dei centri decisionali è una questione di vitale importanza.

Un rapido rewind degli ultimi dodici mesi rivela, come ricordato prima, uno scacchiere politico molto attivo in materia: la scelta dell’architettura istituzionale che dovrà reggere l’urto di un settore fortemente sotto pressione potrebbe essere il tema dei temi nell’immediato futuro.

Un CNC all’italiana: ma che vuol dire?

Il primo, e sulla carta più disruptive, dei modelli in campo è quello che potremmo chiamare “CNC all’italiana”. Porta la firma di Elly Schlein – cofirmatari Dario Franceschini e Matteo Orfini – ed è l’oggetto dell’Atto Camera 2360, oggi in discussione in Commissione Cultura: una legge che istituisce un’Agenzia per il cinema e l’audiovisivo, ente pubblico dotato di autonomia organizzativa e finanziaria, a cui trasferire gran parte delle funzioni oggi in capo alla Direzione generale Cinema e audiovisivo (gestione del Fondo, tax credit, promozione, internazionalizzazione, osservatorio dati, formazione).

Matteo Orfini
Matteo Orfini

Matteo Orfini

Il modello dichiarato è quello del Centre national du cinéma et de l’image animée: un ente amministrativo pubblico sotto l’autorità del Ministero della Cultura, con personalità giuridica e autonomia finanziaria, incaricato di concepire e attuare la politica dello Stato in materia di cinema, audiovisivo, video, creazione digitale e videogiochi. In Francia, il CNC è il perno di un sistema che raccoglie e redistribuisce risorse, accompagna i progetti dalla scrittura alla distribuzione, tutela il patrimonio e presidia i dati del settore. L’idea del Pd è prendere quell’architettura e “tradurla in italiano”, adattandola ai vincoli del nostro ordinamento e al dettato della legge 220.

«Il cinema e l’audiovisivo italiano hanno ormai una dimensione industriale, sono esposti alla competizione internazionale, devono fronteggiare sfide sempre nuove e più difficili», ragiona Matteo Orfini, che della pdl Schlein è uno degli artefici. «Hanno bisogno di politiche industriali e di strumenti di governance efficaci, stabili, professionali e non esposti al ciclo politico. La DG Cinema non può essere sufficiente, e i fatti di questi mesi ne sono una dimostrazione abbastanza evidente: quella struttura non è adeguata – e non potrà mai esserlo per limiti strutturali – a svolgere un compito come questo». Eppure è il Pd, quando era al governo, che ha scritto e gestito la legge 220, ha fatto crescere il Fondo, ha spinto sul tax credit. Perché l’idea di Agenzia arriva solo adesso? «In realtà è una proposta sulla quale avevamo riflettuto anche in passato», dice Orfini. «Ma l’esigenza di innovare la governance oggi ci pare più stringente proprio in ragione dello sviluppo che ha avuto il settore dopo le innovazioni normative prodotte dai nostri governi. Innovazioni fondamentali, ma che hanno anche fatto emergere criticità negli strumenti di gestione e controllo. E appunto l’esigenza di una maggiore professionalizzazione».

Sulla carta, l’Agenzia immaginata dal Pd dovrebbe replicare due tratti chiave del CNC: autonomia e professionalità. Autonomia perché l’ente avrebbe un proprio bilancio, propri organi, una vigilanza ministeriale ma non un controllo diretto quotidiano da parte del sottosegretario di turno; professionalità perché il reclutamento e le modalità di lavoro dovrebbero avvicinarla più a un’“amministrazione tecnica” che a un ufficio tradizionale del ministero. «Ci siamo ispirati sicuramente a quel modello ma cercando di “tradurlo in italiano”», spiega Orfini. «L’Agenzia sarà uno strumento più snello, ma crediamo possa replicare autonomia e professionalità del CNC».

Angelo Zaccone Teodosi
Angelo Zaccone Teodosi

Angelo Zaccone Teodosi

Per i critici è l’ennesimo “poltronificio”. Angelo Zaccone Teodosi, presidente di IsICult Istituto Italiano per l’Industria Culturale, definisce l’idea dell’Agenzia «In sé valida. Dotando l'ipotetica Agenzia di una cassetta degli attrezzi adeguata: studi e ricerche, indagini ex ante ed ex post, valutazioni di impatto... tutto quel che oggi in Italia manca al sistema. L’impostazione, in astratto, è condivisibile. Temo però che in concreto si scontrerebbe presto con la cooptazione di figure inadeguate nei suoi organi di vertice. Il rischio, insomma, è di passare dalla padella alla brace».

Orfini ribalta la prospettiva: «Quella del controllo politico la trovo una critica curiosa: oggi tutto viene deciso dalla DG Cinema e dal sottosegretario competente, quindi il controllo politico è quasi totale! Con l’Agenzia questo controllo diretto, almeno sulla gestione degli aspetti industriali, si attenuerebbe molto». Nel testo, insiste, ci sono già criteri di nomina e funzionamento pensati per rafforzare l’indipendenza, e in Parlamento «si possono ulteriormente blindare» raccogliendo anche proposte arrivate da altre forze.

Pupi Avati sul set de L'incanto
Pupi Avati sul set de L'incanto

Pupi Avati sul set de L'incanto

A promuoverla nel mentre è senza dubbio Pupi Avati, il primo a smuovere le acque con la proposta di un Ministero del Cinema lanciata lo scorso febbraio. Nella lettura di Avati, l’Agenzia e il Ministero sono due declinazioni diverse della stessa esigenza («La proposta dell’Agenzia? È anche la mia, la Schlein l’ha fatta sua»), ovvero quella di ripensare radicalmente la cabina di regia: «L’Agenzia potrebbe annullare tutta una serie di passaggi burocratici che attualmente ingolfano il governo del cinema», ragiona. Il punto non è aggiungere un altro livello, ma prevedere «un soggetto unico che accentri davvero gli strumenti, riportando tutto al tax credit, e superi la politica dei contributi selettivi e automatici che dipendono dal formarsi delle commissioni». Il bersaglio è quel sistema di tavoli e sotto–tavoli in cui la variabile della composizione delle commissioni pesa quanto, se non più, dei criteri scritti nei decreti. «Un’Agenzia tecnica darebbe garanzie di commissioni competenti», sostiene Avati.

Il punto però, ribatte Zaccone Teodosi, è che l’autonomia non nasce per decreto: «Sulla carta una “agenzia” dovrebbe caratterizzarsi per una maggiore snellezza burocratico-amministrativa e per una più ampia autonomia rispetto alla politica. Tuttavia, le esperienze delle varie “autorità indipendenti”, in Italia, dimostra che la soluzione non è meccanica né automatica». L’antidoto, più che nei modelli, starebbe nella scelta delle persone e nei criteri: «Adottare criteri di selezione che siano tecnici e trasparenti, superando il vizio storico dell’“intuitu personae”. Va combattuta la diffusa prevalenza di quel che definisco da anni il “capitale relazionale”, rispetto alla “capacità professionale”».

Sul tema dei rapporti Agenzia-Governo, Orfini precisa però come «Il Ministero debba mantenere, com’è giusto, i poteri di indirizzo». L’Agenzia invece «garantirà rapidità e certezze ed eviterà anche quel meccanismo discutibile di interlocuzione bilaterale tra DG o sottosegretario e singolo produttore, che non può e non deve essere il meccanismo attraverso cui passa il sostegno a un’industria».

Non drammatizziamo, è solo una questione di soldi

Secondo Avati «altro dato a favore dell’Agenzia è che è a basso costo. Dovrebbe avere una dotazione di massimo 500 milioni, non si può sforare. Inoltre, bisogna produrre in base agli incassi. Non si possono produrre film di 50 milioni quando ne incassano massimo sette, otto». E se per Avati il tax credit non è il perno ma l’unico strumento di politica industriale sul cinema che la futura governance statale dovrebbe mantenere, per Orfini è uno strumento che esige alcuni ritocchi: «Il bug è nei controlli e nella capacità della DG Cinema di verificare e monitorare».

Un’esigenza avvertita anche da altre parti politiche (Mollicone nella mozione 1-00489 parla di un tax credit manager dedicato), ma non da osservatori indipendenti come Zaccone Teodosi, che ritiene invece come lo «strumento vada assolutamente ridimensionato, perché riduce, di fatto, la propensione al rischio che dovrebbe caratterizzare gli imprenditori».

Sul piano delle alleanze, il modello Agenzia non vuole essere una bandierina di partito. Orfini parla di «sostanziale sintonia» con le altre opposizioni e chiama in causa direttamente una parte della maggioranza: Forza Italia, che dialogando pubblicamente con Pupi Avati ha raccolto l’idea di un Ministero del Cinema, e quei pezzi del centrodestra che in più sedi hanno riconosciuto la necessità di una governance più solida. Ma chi siederà nel consiglio dell’Agenzia, chi indicherà il direttore, come verranno ripartiti i posti tra governo centrale, Regioni, associazioni, mondo del lavoro?

«Se il Ministero della Cultura (rectius: il Ministro) fosse in grado di garantire criteri di selezione trasparenti, inviti alla candidatura, valutazione comparativa dei curricula, si potrebbe fare bene, e forse anche meglio rispetto ai modelli di altri Paesi europei. Ma vorrà un ministro “indipendente dalla partitocrazia” mettere in atto simili metodologie?», si chiede Zaccone Teodosi.

Domanda che al momento resta sullo sfondo. Anche perché, azzarda Avati, la politica «nei riguardi del cinema ha un interesse relativo». La delusione maggiore del regista bolognese, però, non è verso i partiti, ma verso la categoria: «La cosa che mi ha stupito e mi ha deluso è come, davanti alla mia proposta, si siano mossi in modo molto prudente anche gli autori».

Cercasi finestra per far arieggiare le sale 

Il mondo delle associazioni sembra seguire Avati su temi più stringenti come quello delle windows, le finestre tra uscita in sala e sbarco in piattaforma. «Continuo a pensare che l’unica alternativa è garantirle. Non esistono altri sistemi. È un tema di cui non si parla quasi più», avverte.

Mario Lorini
Mario Lorini

Mario Lorini

Ma che trova naturale sponda nell’ANEC, l’Associazione Nazionale degli Esercenti Cinematografici: «Oltre certi limiti – ammette il Presidente Mario Lorini - diventa difficile anche capire l’obiettivo di finestre sempre più strette, se non quello dichiarato da almeno una piattaforma in particolare, di portare il più velocemente possibile ogni contenuto in streaming».

Sulla questione istituzionale non prende posizione. Le priorità che Lorini consegna alla politica hanno un tono più operativo: attivare tavoli di lavoro di filiera, analizzare urgenze, condividere politiche e azioni per rafforzare l’industria theatrical; dare stabilità ai piani di investimento e agli interventi per consentire una programmazione migliore; intervenire sulla burocrazia, che negli ultimi tempi – osserva – «non si è affatto semplificata, anzi».

Riconosce che negli ultimi anni qualcosa ha funzionato davvero: le campagne come Cinema Revolution e Cinema in festa, perché hanno riportato la sala “al centro dell’attenzione”, con un effetto trainante che ha aiutato anche i film non direttamente sostenuti dalle campagne. L’efficacia della “campagna mediatica a 360 gradi”, a suo avviso, è stata quello di lavorare sul desiderio, non solo sul prezzo.

Al futuro governo del sistema forse non si può chiedere anche di fare il nostro cinema più bello e desiderabile. Basterebbe che lo rendesse più sano e trasparente. L’unica riforma che serve, a pensarci bene, è questa.