Tre ore e quarantacinque minuti di proiezione, e non sentirli. Anna inizia con una sedicenne cagliaritana, drogata e incinta, incontrata casualmente dal giornalista Massimo Sarchielli a Piazza Navona. Sarchielli la prende in casa, le cura la tosse, la spidocchia e ascolta la sua storia finché decide di girarci un film, e con l'aiuto del regista Alberto Grifi iniziano le riprese. Il risultato sono 11 ore di registrazioni magnetiche sul uno dei primi videoregistratori portatili importati in Italia, trasferite parzialmente in pellicola 16mm per un totale di quasi quattro ore di pura, vitale sperimentazione.
Film indipendente, “cult movie” per la generazione post-sessantotto in Italia, Anna segna uno spartiacque nel cinema italiano, tecnico e insieme artistico. Il basso costo del supporto magnetico permette infatti il superamento della nozione stessa di cinema verità, com'era inteso fino a quel momento. La dimensione cinematografica assoggettata alla regia, ai metri di pellicola e ai costi di produzione viene così abbandonata a vantaggio della più totale libertà linguistica e creativa. Questa liberazione è visibile nel momento in cui Vincenzo, l'elettricista del film, esce inaspettatamente dalla zona d'ombra del teatro di posa per entrare in campo, stravolgendo la sceneggiatura e dando una nuova direzione alla storia. La disobbedienza di un operaio di scena, che sceglie coscientemente di uscire dal meccanismo produttivo, sconvolge i piani di regia e si estende a tutta la troupe aprendo la strada alla rivoluzione: la realtà stessa diviene il luogo della creazione, e non il film, che fino a quel momento l'aveva fatta a pezzi per ricombinarla e “normalizzarla” in forme apparentemente migliori. In uno straordinario cortocircuito artistico, il passo del film diventa dunque il passo della vita, allargando la storia di Anna all'intero processo di realizzazione del documentario, mettendo tutto in discussione e regalandoci uno spaccato autentico di quegli anni. Un capolavoro insuperato.