Al regista brasiliano Cao Guimaraes sono sufficienti ottanta minuti per compiere un'operazione cinematografica che unendo alla bellezza delle inquadrature una profonda sostanza emotiva regala allo spettatore tre ritratti di disperati ai margini di una società che dalla fondazione della capitale Brasilia in poi pare avere subito un regresso irreversibile. Guimaraes usa spesso la telecamera fissa e alcune inquadrature sono di una lentezza esasperante. In realtà la sua abilità risiede proprio nel costringere lo spettatore a non distogliere lo sguardo da quelle immagini. Vedendo i protagonisti di Andarilho il primo desiderio che ci viene è quello che spesso ci accompagna di fronte alla vista di un qualunque barbone per strada: lavarlo, lavargli gli abiti, il corpo, ma anche l'anima e la mente. Così facendo lavando anche la nostra coscienza. Perché ciò che disturba davvero è l'inquietudine che le parole di questi disperati ci comunicano, il loro rapporto con Dio e le cose. Il loro atteggiamento, che non è mai di disprezzo verso la condizione che vivono bensì la ricerca di una spiegazione a quello che loro è successo. I tre personaggi scelti dal regista hanno sfaccettature e gradi di alienazione molto diverse. Sono tre gradi di un processo degenerativo che passa dall'emarginazione sociale e alla solitudine per arrivare ad una necessaria follia. L'ultima bellissima inquadratura (ricordiamo che Guimaraes viene dalla fotografia), ci regala una visione struggente dei protagonisti che dopo un breve incontro e un memorabile dialogo sui massimi sistemi, riprendono mestamente la loro strada diretti, ma solo per noi, al nulla delle loro esistenze.