Aveva lasciato tutti senza fiato, Alejandro Gonzalez Iñarritu, quando pochi anni fa si era affacciato al cinema con l'intenso Amores perros. Non minore sorpresa era arrivata dall'episodio del film collettivo sull'11 settembre, in cui aveva scelto di inondare di nero lo schermo per raccontare l'irraccontabile. I meriti attendevano una conferma e 21 grammi - Il peso dell'anima è stato uno dei film più attesi alla passata edizione del festival di Venezia. Sostenuto da un cast stellare - Sean Penn, Benicio Del Toro e la lanciatissima Naomi Watts - ha affrontato il concorso aggiudicandosi la coppa Volpi per la migliore interpretazione, andata al sofferto Penn. Si è anche aggiudicato un premio non ufficiale, quello del film più controverso. L'opera seconda di Iñarritu ha infatti diviso la critica, indecisa tra chi ha creduto e pianto di fronte al concentrato di sfortune di cui è vittima il protagonista, e chi invece ci ha fatto sopra una bella risata. Raramente capita di vedere opere così profondamente e dichiaratamente ambiziose nei temi e nelle scelte stilistiche. Anche se, diciamolo subito, a Iñarritu va quanto meno riconosciuta la tenacia con la quale aderisce fino in fondo a un progetto, pur se sbagliato nelle fondamenta come questo. E le fondamenta sono la storia stessa, travagliata e complessa come si conviene, che scandaglia l'anima dei protagonisti ripresi in una situazione estrema. Il professore universitario Paul (Penn), cardiopatico, riceve in sorte un cuore nuovo dopo che un disperato ossessionato da un falso senso religioso (Del Toro) falcia con la sua macchina un'intera famigliola: padre e due bambine. L'organo, ovviamente, è quello dell'irreprensibile genitore e marito innamorato della tenera Christina (Watts), che alla tragedia reagisce buttandosi nell'alcol e nella droga. Paul, però, comincia a vigilare su di lei fino ad avvicinarla e a intrecciare una relazione nutrita in egual misura dal sentimento e dal desiderio di vendetta nei confronti dello spostato Jack. Relazione pericolosa, inutile dirlo. Il tutto raccontato con un continuo intreccio temporale che mischia lo ieri all'oggi a ritmi frenetici. E non contribuiscono certo le immagini ad alleggerire la sensazione di disagio, livide da far accapponare la pelle. Ma pur in tanta salsa melodrammatica condita da virtuosismi di stile, il talento di Iñarritu riesce comunque a lasciar trapelare di esistere, di non essere un bluff. Considerazione che aumenta il dispiacere per un film sbagliato di un regista che avrebbe invece tutte le carte in regola per diventare uno dei cineasti di punta del momento. Giocare fuori casa raramente porta buoni risultati. Speriamo che Iñarritu se lo ricordi prima di rischiare nuovamente su una storia americana.