“I premi servono al film più che al cineasta”. Orso d'Oro, quelli d'Argento a interpreti maschili ( tra cui, Babak Karimi, attore e montatore trapiantato dal '71 in Italia) e femminili, il riconoscimento della Giuria Ecumenica, ma il regista fa umili spallucce, perché parla il film: Una separazione, dal 21 ottobre nelle nostre sale con Sacher Distribuzione in 30-40 copie. Al quinto lungometraggio, il 39enne Asghar Farhadi racconta il distacco tra marito Nader (Peyman Moadi) e moglie Simin (Leila Hatami), ovvero “gli scontri tra due ceti sociali, che chiamano in causa l'Iran; le frizioni all'interno della famiglia, che evocano altri Paesi; il conflitto interiore dei singoli personaggi, che è universale”.
E mette in chiaro un punto del suo cinema: “Vengo dal teatro, e sto attento che un film non diventi teatrale”, toccando la metacritica: “Finché si parla di cinema, la critica cinematografica in Iran è libera”. Ma come si è arrivati alle recensioni? “Si valutano le sceneggiature, non c'è una legge precisa, né valutazioni prevedibili. Forse, sono stato fortunato: quando il mio script è stato valutato, il componente più severo della commissione di censura era in viaggio…”. Nondimeno, Una separazione successivamente era stato bloccato per 10 giorni, ma Farhadi non se ne cruccia, anzi: “Dopo quella pausa, il film è sicuramente migliorato”. E ora correrà sulla strada degli Oscar: vero ma strano, perché dal 1979 l'Iran non proponeva un prodotto cinematografico nazionale agli Academy Awards, fatta eccezione per Sotto gli ulivi di Kiarostami e Children of Heaven di Majid Majidi. Da un lato si reprime e imprigiona (Panahi & Co.), dall'altro si guarda a Hollywood? “Il sistema non è omogeneo, ci sono contrasti molto forti al suo interno - spiega il regista - e, del resto, chi crea problemi ai cineasti è fuori dal sistema cinematografico”.
Comunque, più di qualcuno avrà chiuso un occhio in sede di censura e candidatura all'Oscar perché innegabilmente quanto sottilmente e acutamente Una separazione è un film politico, nell'accezione cara a Farhadi: “Non mi piacciono i film manifesto, perché nascondono una dittatura interna. Viceversa, più si è vicini alla realtà, più si è politici”. Osservazione buona per elogiare Ladri di biciclette, certificare la conoscenza del nostro cinema nell'Iran oggi, da Moretti a Tornatore, e ritornare nel merito politico del film: “Mi chiedete del problema delle donne in Iran: dividere tra uomini e donne aiuta chi crea questi problemi”.
E nemmeno si può chiedere un esplicito commento politico sul perché, seppur primogenita, la Rivoluzione Verde non sia andata a buon fine come le altre del limitrofo mondo arabo: “La risposta è nel film: se come dite è politico, la risposta c'è già”. E non manca un pizzico di irritazione: “Mi si chiede in quanto iraniano più che cineasta, né Una separazione è un'enciclopedia della società iraniana”. Torniamo, dunque, al film che inquadra “persone oneste in situazioni poco oneste”, prosegue il fil rouge dei precedenti Fireworks Wednesday e About Elly nelle dinamiche tra singolo e  gruppo, e stigmatizza, sulla scia del Pinter studiato all'università, “un linguaggio non più sufficiente a esprimersi: la società è sempre più complessa, ma il linguaggio è sempre quello”. E chissà se anche il film successivo verterà su questa incomunicabilità: Farhadi ne sta scrivendo la sceneggiatura, e sarà “franco-iraniano, perché così vuole la storia”.
Da ultimo, si torna all'Iran oggi, con due notizie. Prima la cattiva, ovvero la condanna a 90 frustate e un anno di carcere comminata all'attrice Marzieh Vafamehr, rea di aver recitato senza autorizzazione in My Tehran for Sale: “L'ho appena saputo, e sto male. E' stata mia compagna all'università ed è amica di mia moglie, ma non voglio dire di più per non compromettere ulteriormente la sua posizione”. Poi, la buona: “In Iran la tensione è alle stelle, ma sarebbe sbagliato pensare a un popolo che se ne sta con le mani in alto: la motivazione a fare è ancora più forte, e l'effervescenza teatrale lo dimostra”. E un finale pensiero a noi: “Iran e Italia? Abbiamo tante cose in comune”.