[L’ARTICOLO CHE SEGUE POTREBBE CONTENERE SPOILER: MEGLIO LEGGERLO DOPO AVER VISTO LA SERIE]

Che cosa sarebbe accaduto se all’indomani della Seconda Guerra Mondiale gli studios avessero prodotto un film con una protagonista afroamericana?

Scritto da un autore sconosciuto, anche lui di colore nonché gay? E diretto da un esordiente metà americano e metà filippino?

E se poi quel film, in barba alle minacce di Ku Klux Klan e accoliti, avesse battuto ogni record d’incasso (nonostante il boicottaggio delle sale del Sud) per poi finire la sua corsa, da protagonista, alla notte degli Oscar?

Chissà, tanto per dirne una, una serie di eventi così impensabili per l’epoca avrebbe potuto regalare ad un divo come Rock Hudson la possibilità di una carriera altrettanto fortunata ma vissuta (intimamente) senza dover mascherare la propria reale natura.

Ecco, la nuova operazione targata Ryan Murphy, uno che spesso e volentieri ha giocato con l’ucronia su registri totalmente differenti (si pensi ad esempio ad American Horror Story), sembra proprio voler ritornare lì dove i sogni si trasformavano in realtà ma, almeno fino a pochissimo tempo fa (e ancora oggi non è che sia tutto rose e fiori) erano solamente i sogni appannaggio di una maggioranza, bianca, patriarcale e omofobica.

Non a caso la serie – in 7 puntate su Netflix – si intitola Hollywood ma il titolo diegetico, sotterraneo, il nome faro dell’intera vicenda è proprio Dreamland: all’inizio luogo-miraggio dove i gigolò del distributore gestito da Ernie West (Dylan McDermott, sontuoso, presenza abituale nei lavori di Murphy) “conducono” le donne (e gli uomini) in cerca di emozioni forti, poi titolo del nuovo film che il gruppo di protagonisti si appresta a realizzare in chiusura di racconto, pellicola che (immaginiamo) cambierà per sempre e in maniera radicale lo status quo imperante nella terra dei sogni.

Accantonata la vena macabra di American Horror Story e quella “cruel” di American Crime Story, Ryan Murphy mantiene il coté patinato della precedente The Politician ma ne abbandona la cifra acida e lisergica, approdando su una landa cullata da un classicismo glam e un’ironia sagace, dove la battaglia per l’uguaglianza (di genere, di razza) si scontra sovente con un sottobosco fatto di segrete perversioni e quant’altro.

Furbo quanto basta, capace di incastrare ogni tassello con una perfezione al limite dell’appagamento fastidioso, Ryan Murphy (insieme al sodale coideatore/coautore Ian Brennan) crea un’alchimia commovente tra “realtà” e finzione, mescolando personaggi fittizi a personaggi realmente esistiti, chiedendo ai primi di agire per fare in modo che la Storia possa in qualche modo essere riscritta e donare così ai secondi ben più che i semplici “riconoscimenti” di facciata ottenuti in vita.

Hollywood

Sarà così, ad esempio, che Hattie McDonald (la Mami di Via col Vento, qui interpretata da Queen Latifah), potrà sedere in platea insieme agli altri invitati durante la notte degli Oscar (e non rimanere confinata nel fondo della sala come avvenne quando l’Oscar lo vinse davvero, da non protagonista) o che Anna May Wong, prima star del cinema sino-americano, trovi la gloria e le luci della ribalta che, in vita, le vennero sempre negate.

Tutto parte da Peg Entwistle, attrice britannica che nel 1932 a soli 24 anni si gettò dalla prima lettera dell’insegna di Hollywoodland (all’epoca la scritta era ancora quella), dopo che la sua parte nel primo film interpretato a Los Angeles venne tagliata.

Fatto vero che ispira la stesura di uno script da parte di uno sceneggiatore alle prime armi, Archie Coleman (Jeremy Pope), finito poi nelle mani del regista Raymond Ainsley (Darren Criss).

Due personaggi fittizi, questi ultimi, che danno il La a questo appassionante intreccio dove la magia del cinema in bianco e nero incrocia la serialità dei nostri giorni: rivive così la quotidianità di uno studios (l'inventato Ace Pictures), il dietro le quinte di una “fabbrica” dove si coltivavano nuovi talenti ma tendenzialmente si puntava sempre sul “sicuro”, perché ogni rischio era inteso come anticamera del fallimento.

È in questo crinale che Hollywood gioca le sue carte migliori, immaginando una deviazione di percorso abitata da figure in grado di imporre un cambiamento, impensabile per l’epoca, dato abbastanza per scontato oggi, ma che scontato, purtroppo, ancora non è.

Sentiero dove anche il personaggio più abietto, l’agente Henry Wilson (colui il quale scoprì Lana Turner e Rock Hudson, inventando per entrambi i nomi d’arte), interpretato da un magnifico Jim Parsons (a conferma che in futuro potrà impersonare anche qualcun altro oltre che lo Sheldon di Big Bang Theory) potrà trovare una redenzione e un nuovo viatico che la vita non gli seppe regalare.

“Vorrei andare a Dreamland”.

“La accompagno io”.