Pochi registi al mondo sono capaci di aprire un solco nello schermo e scrutare dentro l'Infinito. Naomi Kawase è una di questi.
Still the Water (titolo originale Futatsume No Mado) conferma la sua grande capacità di cogliere i “tanti altri mondi da vedere oltre l'immagine”, regalando al concorso un'esperienza unica e totalizzante, che abbraccia l'Essere, il Tempo, l'Amore e la Morte in un solo movimento. Probabilmente siamo di fronte al punto di arrivo di una ricerca iniziata con la fotografia, proseguita nel documentario e poi nei film di finzione, e arrivata magistralmente fin qui: la sua quarta partecipazione in concorso a Cannes, potrebbe – dovrebbe – portarle un secondo premio importante, dopo il Grand Prix vinto nel 2007 con Mogari No Mori.
Anche stavolta la Kawase parte da uno spunto autobiografico (gli antenati abitavano l'isola di Amami, dove è ambientata la storia) e da una vicenda di una semplicità disarmante, riassumibile in poche righe: due adolescenti innamorati l'uno dell'altro, entrambi con vicissitudini familiari alle spalle, scoprono il cadavere di un uomo in riva al mare e ne vengono turbati.
Dovendo utilizzare il lessico dei generi, Still the Water sarebbe un coming-to-age classico, in cui la perdita dell'innocenza –conseguenza di un evento traumatico – coincide sempre con l'assunzione di una consapevolezza nuova e di un modo più adulto di stare al mondo. E tutto questo avviene con l'autenticità e la grazia dei due giovani protagonisti (Makiko Watanabe e Hideo Sakaki) sulla scena. Ma accade altro: i conflitti, la richiesta di attenzioni, i dilemmi dell'età formano un'esile trama narrativa che la Kawase cuce e ricuce attorno al corpo mistico del suo cinema, un dispositivo rituale che – come i tanti riti proposti nel film - è capace di evocare l'evento decisivo, quello in cui un'inquadratura o un movimento di macchina strappano il velo al Mistero. Uomini e alberi, abissi e stelle, venti e maree si affratellano con pari dignità, forme di una materia-flusso che si rinnova continuamente.
Con il solo ausilio del digitale, della macchina a mano e dell'istinto che solo può sapere quando, come e cosa riprendere, la Kawase filma così il moto perpetuo ed enigmatico dell'Essere, il circuito segreto delle trasformazioni in cui interno ed esterno, sopra e sotto, visibile e invisibile si compenetrano in un processo costante di reversibilità: si vive per morire, ma non si muore e basta.
Siamo alla presenza di un cinema che non ha bisogno di immagini grandiose per dire Tutto (come accade, ad esempio, nei recenti lavori di Malick), ma solo di piccole epifanie di luce colte nel momento propizio.
Un'esperienza certo che richiede pazienza, ma che regala il lampo di una visione purissima, il fotogramma dell'Anima delle cose. Difficile spingersi oltre.