Crossing Over - presentato ieri sera al Taormina Film Festival e in uscita in Italia il prossimo 26 giugno (01 Distribution) - fa parte di quella nutrita schiera di film che riflettono la trasformazione epocale che ha segnato l'America post-11 settembre. Come per gli altri titoli di questo filone - Crash, Leoni per agnelli, Nella valle di Elah, gli esempi più illustri - la tragedia delle Twin Towers non rientra esplicitamente nell'universo finzionale del film (se si esclude il riferimento diretto nell'episodio di Taslima, la bambina del Bangladesh che viene trattenuta dall'FBI perché sospettata ingiustamente di collusioni con i jihadisti), ma costituisce senza dubbio l'orizzonte di senso nel quale andranno collocati i protagonisti, i fatti narrati e i significati connessi. Come una specchio deformante l'11 settembre modula il cine-occhio dell'America oggi, ascrivendo alla sua incommensurabile portata di evento ogni logica, ogni contraddizione, ogni conflitto dell'esistente. Lo sguardo di Wayne Kramer - che aveva diretto in precedenza una commedia romantica (The Cooler) e un thriller (Running Scared) non eccelsi - non sfugge a questo diktat storico-culturale, pur focalizzandosi su un tema apperentemente slegato: la via crucis della green card, ovvero la fatica di "essere" (diventare) cittadini americani. Il perno centrale attorno al quale ruotano storie diverse e confliggenti - nella oramai tipica costruzione a puzzle, alla Inarritu per intenderci - è il personaggio di Max Brogan (Harrison Ford), un agente dell'Immigration and Customs Enfocement di Los Angeles, una sorta di cerbero che decide chi può entrare e chi no nella terra dell'abbondanza. Sul suo volto convivono l'inflessibilità, la totale sottomissione al giuramento fatto alla Nazione, con l'amarezza della tante - troppe - tragedie umane costretto a vedere ogni giorno, come quella che tocca a una donna messicana che "ha preso il treno sbagliato", e finisce ammazzata al confine. Le vie di Brogan s'incrociano con quelle del collega Hamid Baraheri (Clliff Curtis), un ex immigrato che ha ottenuto la naturalizzazione americana senza averne totalmente assorbito la cultura liberale; di Denis Frankel (Ashley Judd), avvocato difensore dei diseredati e di coloro che non hanno il permesso di soggiorno; del marito di Denis, Cole Frankel, (Ray Liotta), un dipendente dell'ufficio permessi che baratta una green card con le prestazioni sessuali di una disperata ragazza australiana a rischio rimpatrio. Ma le storie sono molte di più - ci sono quelle già citata di Taslima e dell'operaia messicana, la vicenda di Gavin (Jim Sturgess), un musicista inglese che si finge ebreo pur di non tornare a casa, dell'adolescente coreano Yong Kim che rimane coinvolto in un brutto giro di amicizie - ed è impossibile qui riassumerle tutte. Kramer (autore anche della sceneggiatura) non si sottrae alla sfida della complessità, rendendo conto con equanimità di ragioni e sventure di tutti, colpevoli o no, immigrati e americani. Il quadro che emerge è quello di un Paese sfaccettato, diviso tra umanitarismo e diffidenza, cuore e ragione, incapace di governare la complessità e la crisi di valori seguiti al trauma delle Torri, di oltrepassare ("Crossing Over") - come gli immigrati fermati alla frontiera - quel limite. La violenza della green card è la cartina di tornasole di una nazione che fatica a credera ancora nella sua eterogeneità, nella bandiera del melting pot. E il film di Kramer suo malgrado è la fotografia - impeccabilmente confezionata - di questa impasse. Incapace di andare oltre il puro gioco del rispecchiamento (aderire a tutti i punti di vista equivale a non assumerne nessuno) e di assumere uno sguardo che oltre ad essere consapevole sia anche responsabile. Con i vezzi tipici dell'autorialità mainstream di recente fortuna (quelle di Haggis e Inarritu) - un certo manierismo formale (piani sequenza, camera a mano, primi piani dolenti, silenzi, etc...), la sostituzione dell'idealismo retorico (il messaggio) con la retorica dello stile, la ricerca smodata di immagini e situazioni esemplari - e i paradossi della coralità postmoderna, dove nulla torna più, eppure tutto alla fine combacia.