Un film come questo non l'avete mai visto. Di quanti cineasti possiamo dire così? Figlio di un farmacista, Alain Resnais ha raccontato l'emozione della composizione quando la farmacia si svuotava e restavano solo due cose: i barattoli e il silenzio.
Parcheggiando con disco orario la quotazione massima dell'inclito regista secondo i critici, “autore che sviscera la necessità dell'arte di forzare l'indicibile”, si fa prima ad arrivare a casa Resnais, un luogo antico della pubertà-adolescenza dove la sperimentazione è un bisogno naturale praticato con abilità, coraggio e ironia. Quando gira una versione di Fantòmas, a quindici anni, cerca di contraffare l'età dei suoi attori bambini avvicinando la cinepresa alle facce, oltre ogni ragionevole misura: “Scoprendo che era una scelta sbagliata ho aiutato le mie facoltà critiche, non solo nel cinema”.

Come succede per i poeti nei box delle antologie scolastiche, sui giornali Resnais viene sezionato e scandito per periodi: il tema della memoria, nella prima parte, da Hiroshima mon amour (1959), a L'anno scorso a Marienbad (1961), a Muriel. Il tempo del ritorno (1963), La guerra è finita (1966, per una sorta di contrario della memoria nella lotta per il futuro), e Je t'aime, je t'aime (1968); il periodo dell'analisi (scettica) del comportamento umano, da Stavinski (1974) a Providence (1977), Mon oncle d'Amerique (1980) e La vita è un romanzo (1983), ma dove mettiamo l'orfismo materialista di L'amour à mort (1984) è da vedere; e poi via con il terzo periodo, il teatro filmico che, in congegni a struttura temporale, combina temi e personaggi delle presunte prime due fasi, da Melò (1987) all'ultimo Amare, bere, cantare (2014), passando per Smoking; No Smoking (1993), Parole parole parole (1997), Cuori (2006), dove Resnais privilegia testi dell'impagabile Ayckbourn.

Se in questo buio cimitero di titoli accendiamo un fiammifero (pensando con tristezza: ma ci sono ancora giovani generazioni che cercano i film di Resnais? Poiché altrimenti saranno più povere), se accendiamo una fiamma, le opere di Alain Resnais tornano vive intorno a quel fiammifero che le ha generate e le comanda: la morte. Allegria, ma è così. Non è però la mortalità umanista, classica, ma l'esistenziale fine degli altri in noi, come ci ricordava già 30 anni fa Marcel Oms di Positiv: “Nella poetica di Resnais si tratta della morte come impossibile fine del mondo, in quanto 'ognuno è anche gli altri', interiorizzati e di cui siamo memoria, ed è l'altro che è mortale in me”. Gli altri in me, dunque la Storia, il mondo che continua e riceve il tempo. E' in questo ragionare del tempo che si è sviluppata la disarticolazione del racconto nel cinema di Resnais, e così anche la messa in scena teatrale del tempo di molte opere recenti.

Ma la prima. Hiroshima (dal 28 aprile torna in sala grazie alla Cineteca di Bologna, ndr)) resta l'entrata spettacolare di un pensiero di cinema tra il neorealismo e le nouvelle vagues. Quanto sono teneri e ombrosi questi amanti senza domani in corso d'immaginazione proprio di quel domani, lo stesso domani che, nella coscienza collettiva, contiene la ricostruzione delle società. “Un'anima piena di immaginazione è tenera e ombrosa” scrisse Stendhal in Dell'amore. La speranza d'amore è mai stata così incisa, così stroncata e rianimata, e così messa in risonanza con la speranza della Storia? Tu sei Nevers, io sono Hiroshima.
Ancora oggi Hiroshima mon amour lascia un segno di originale tensione metafisica, di forte impressione di unicità melò, nel contrasto tra fotografia e parola, tra il dato e l'immaginato, un vero romanzo filmico, di disorientante “indeterminatezza letteraria”. Antonioni che incontra Visconti. Ma è Resnais.