La prima cosa che colpisce di Luigi De Laurentiis è la gentilezza. Che unita a determinazione (e una bella dose di pazienza, specie sui set) ne fanno un caso da seguire con attenzione, almeno nel panorama italiano. Classe '79, prima di essere scaraventato nel mondo dei produttori, poco più che ventenne, ha fatto ogni tipo di lavoro nell'azienda di famiglia, la Filmauro. Nel mentre ha studiato all'estero. Il padre Aurelio lo ha mandato in America, dove si è laureato, nel maggio 2003, in cinema indirizzo produzione, a cui ha sommato un Master in finanza cinematografica. “Ogni giorno - racconta - incontravamo i boss delle major. I corsi sono esclusivamente serali per permettere ai vari direttori marketing o generali di Warner, Paramount o Fox di spiegare agli studenti i meccanismi, piuttosto complessi, di questo settore”.
Un sistema molto diverso da quello italiano?
Quello americano si basa sugli studios, che sono a loro volta in mano alle corporation. Oggi non c'è più nessuno che possa permettersi grandi investimenti a fronte di un rischio di ritorno basso e di un mercato diventato imprevedibile. Il grosso del fatturato proviene da tempo dalle libraries, dall'homevideo virtuale e classico e dai diritti televisivi, che sono una percentuale importante del loro “cash flow” annuale insieme con i continui remake, abilmente proposti, di successi del passato.
Inoltre la pirateria informatica ha cambiato le cose.
Non è un caso che l'anno scorso gli studios abbiano firmato un accordo con iTunes e con altre due o tre realtà per fare in modo che i negozi di homevideo diventino virtuali e che soprattutto il “legal download” entri a far parte dell'uso comune e sia percepito per la sua qualità. E' quello che succederà in Italia nei prossimi anni. E i contenuti saranno utilizzati molto più di oggi, perché potremo averli a disposizione ovunque.
Dopo la laurea sei tornato in Italia...
All'inizio ero convinto che rimanere fosse la scelta migliore. Nonostante Los Angeles sia una città difficile, avevo intenzione di sviluppare alcuni progetti per il mercato americano. Invece mio padre mi ha richiamato in Italia, perché aveva bisogno di una mano.
Una grande occasione o un ridimensionamento delle tue ambizioni?
La realizzazione di un sogno. Sono cresciuto con l'idea di portare avanti il nome di mio nonno (Luigi, ndr) e di fare squadra con mio padre. Ammiro moltissimo mio zio Dino e ho sempre sentito un forte senso di appartenenza alla famiglia. La passione per questo mestiere ce l'ho dentro fin dall'infanzia, ma quando sono andato in America è letteralmente esplosa.
Che cosa è successo?
Credo fino a un certo punto fosse più per affetto per gli affari di famiglia e orgoglio per il successo di mio padre. Poi ho incominciato ad andare sempre spesso sui set, a vedere e rivedere i nostri film, anche con il pubblico, perché sentirlo ridere di gusto mi emozionava, mi trasmetteva una sensazione incredibile. Questo sentimento si è trasformato in passione durante l'Università, grazie alla possibilità di scoprire e approfondire quasi tutti imestieri. Ho girato, scritto e autoprodotto diversi cortometraggi, ho vissuto ogni singola fase che precede la realizzazione del prodotto cinematografico. Trovarmi ogni giorno a contatto con migliaia di studenti selezionati, per la maggior parte registi e sceneggiatori, mi ha insegnato anche a entrare in sintonia con gli artisti, a comprendere il loro lavoro. Esperienza che mi è servita quando sono tornato in Italia, e mi sono trovato dall'altra parte del tavolo.
Tuo padre ti ha richiamato per un film in particolare?
Aveva bisogno che lo sostenessi, che entrassi nella squadra di famiglia. Sono tornato di corsa: la sua proposta mi ha lusingato moltissimo. Il primo film che ho seguito interamente è stato Christmas in Love. Negli anni precedenti quando tornavo, nei mesi di vacanza, andavo in ufficio, lavoravo sui set come factotum, segretario di produzione. Ho guidato camion, portato acqua e caffè agli attori, credo di aver fatto di tutto.
E poi?
Mi sono ritrovato nell'azienda, cioè con una portaerei in mano e imparare a guidarla sono dolori. Quando mio padre mi ha chiesto se me la sentivo di seguire da solo Natale a New York, ho detto di sì, anche per spirito di competizione. New York è una città difficilissima per location e riprese. Abbiamo girato 8 settimane sul posto, ormai non lo fa quasi più nessuno.
E come è stata questa prima esperienza
Una responsabilità enorme: la notte urlavo nel sonno. Quando si va in un paese nuovo è come fare lo start up di un'azienda. Si devono trovare: uffici, accordi commerciali, sponsor. Bisogna incontrare la gente, parlarci. Il personale deve essere qualificato, soprattutto quando giri un film e lo monti contemporaneamente, tecnica che usiamo per quello di Natale. Lavoriamo 15-16 ore al giorno, perciò conta anche l'aspetto umano delle singole persone.
Qual è la parte più bella?
Nessuna è più interessante dell'altra, lo sono in modo diverso. A me piacciono molto sia il marketing che l'advertising: dall'ideazione della campagna al lancio dei film è tutto molto stimolante. Credo risalga all'infanzia, a quando nostro padre ci faceva scegliere i manifesti. Ma anche il product placement può essere divertente. Ogni operazione è fatta “in casa” e quindi cambia la prospettiva. La stessa postproduzione, il missaggio, il montaggio. Forse la cosa che amo di più però è il lavoro di insieme: con l'esperienza ho capito che se la squadra è perfetta sotto entrambi gli aspetti, professionale e non, il resto funziona a meraviglia.
Ora siete in Sudafrica, è il settimo cinepanettone che produci...
In realtà di film ne ho prodotti praticamente il doppio, quattordici tra cui Italians, Genitori e figli e Manuale d'amore 3. In questi giorni siamo tra Capetown e Johannesburg, nel pieno delle riprese. La storia, come in passato, è divisa in due episodi con Neri Parenti che dirige un ottimo cast. Il film di Natale, scherzando, lo chiamo la “nutella”, per la sua connotazione popolare, nel senso migliore del termine. Penso che per piacere al pubblico debba aver quel sapore, che non è facile da ricreare ogni volta.
De Sica mattatore, ma ci sono facce nuove...
Sì. Nel primo episodio Christian è in vacanza in Africa con la moglie, interpretata da Barbara Tabita, ma ci sono anche Serena Autieri e Max Tortora. Nel secondo invece ritroviamo Massimo Ghini, stavolta in compagnia di Giorgio Panariello e Belen Rodriguez. E tre giovanissimi: Laura Esquivel, Alessandro Cacelli e Brenno Placido.
L'interazione con tuo padre è stimolante?
E' soprattutto divertente. Ha fiuto ed esperienza, confrontarmi con lui è molto utile.
Come avviene?
Porto sul tavolo le scelte migliori per ogni reparto, che sono a loro volta il risultato di una selezione accurata di centinaia di possibilità, e poi scegliamo insieme.
Un sogno che si deve ancora avverare?
Realizzare un film americano, nel prossimo futuro.
Prodotto interamente in America?
Sì. Sto studiando la situazione: con la crisi sono apparsi i cosiddetti “billionaires”, a volte raggruppati in hedge funds (fondi speculativi, ndr), ereditieri e finanzieri che investono nella nuova Hollywood. Sono loro che adesso finanziano molti blockbusters. Se è un buon trend per l'economia dello spettacolo, è frustrante per gli artisti perché i nuovi referenti spesso non hanno un background cinematografico. Quindi viene meno il vero rapporto produttore-artista che invece è vitale per la creatività del film. Penso che sia un buon momento per inserirsi in questo gap.
Tra i produttori di oggi chi trovi interessante?
Nicola Giuliano. Si impegna e parla di cinema con passione. E in Italia non sono in tanti che amano davvero questo mestiere.