“Non ho nostalgia per il mio passato. Ho nostalgia per il passato in assoluto”. Così Johnny Depp, una vita fa.
Aveva appena finito di girare Dead Man (1995) di Jarmush, western laido, virato in bianco e in nero, il crepuscolo di un genere e di una nazione. Lui uomo bianco in fuga da tutto, spalleggiato da un pellirossa, solo e unico amico.
20 anni dopo torna nell'Old Wild West, ma qualcosa è cambiato. Il sole splende alto sulle valli frequentate da cavalli e avvoltoi, eroi e fuorilegge. Il mondo è sporco ma almeno a colori. Stavolta l'indiano è lui. Una maschera triste e buffa, un fantasma dalla faccia d'argilla, un po' Corvo e un po' Pirata.
Ecce Tonto, l'aiutante comanche del “cavaliere solitario” John Reid. Nel 1933 i due compagni di ventura debuttavano nello show radiofonico a puntate The Lone Ranger, ma è la serie tv degli anni '50 ad assicurargli un posto nell'immaginario: protagonista un Texas Ranger che, scampato a un agguato grazie al salvifico intervento di un pellirossa, attraversa il selvaggio west a caccia di criminali da consegnare alla giustizia. Pedagogico, iconico, old-fashion e moralmente netto, The Lone Ranger ha vissuto un decennio di gloria, raggiungendo l'apice del successo con l'ingresso nel cast di Clayton Moore, succeduto nel '53 a John Hart nel ruolo principale. Indimenticabile il grido di battaglia di Moore, “Hi-Yo Silver!”, con cui si lanciava al galoppo sul suo cavallo bianco. Jay Silverheels sarebbe invece rimasto Tonto per tutte le stagioni.
La riesumazione al cinema del serial (dal 3 luglio The Lone Ranger sarà nelle nostre sale), oltre a certificare l'involuzione creativa di Hollywood e le mutate gerarchie tra piccolo e grande schermo, è un'idea della premiata ditta Jerry Bruckheimer-Disney. Bisognava rimediare allo sciagurato flop di John Carter e lanciare una saga capace di rinverdire i fasti dei Pirati dei Caraibi. Preferibile l'usato sicuro: se Johnny Depp è la garanzia, Gore Verbinski è il garante.
Nome interessante quest'ultimo. Figlio di un fisico nucleare di origine polacche, Verbinski ha ereditato dal padre l'arte di adattarsi e l'acume matematico, applicandoli al proprio campo d'elezione: la regia. Gli si riconosce capacità di padroneggiare vari generi e un'organizzazione scientifica del lavoro sul set. Il cinema per Verbinski è l'esito oggettivo di una formula ragionata.
A giudicare dai risultati al botteghino, difficile dargli torto: The Ring ($ 250 milioni), La maledizione della prima luna ($ 655 milioni), Pirati dei caraibi – la maledizione del forziere fantasma (oltre $ 1 miliardo), Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo ($ 963 milioni), Rango ($ 245 milioni + Oscar).
Illuminante il giudizio di Bruckheimer: “Non fa qualunque cosa tu gli chieda di fare. La fa meglio”.
Verbinski ha convinto la Disney ad aprire i forzieri impegnandola in una produzione ad alto rischio: 250 milioni dollari di budget. Tra costumi, location e maestranze, il regista ha preteso il the best of. Durante la lavorazione sono stati costruiti set ex novo in cinque Stati diversi (il grosso delle riprese è stato effettuato agli Albuquerque Studios) e due treni d'epoca perfettamente funzionanti.
Rimangono alcune perplessità: la scelta di Armie Hammer (J. Edgar) come sparring partner di Depp appare debole. Sul talento e il candore (anche fisiognomico) non si discute, ma la personalità è tutta da provare.
Inoltre, se la forza dei Pirati poggiava sulla fascinazione per una reliquia antica – i film corsari con Errol Flynn – unita allo spirito digitale del fantasy moderno, stavolta si punta soprattutto sulla prima.Insomma, nonostante i garanti e le garanzie del caso, il rischio di non intercettare spettatori di ogni latitudine anagrafica resta alto. Che è poi la sola cosa che conta. L'unica vera garanzia di successo.