Il primo ciak - 206, 39, prima - era stato battuto da Gianfranco Mingozzi il 16 marzo del 1959 al Teatro 10 di Cinecittà, ove erano state ricostruite le scalette che portavano alla sommità della cupola di San Pietro. Era anche il primo scandalo annunciato, con Anita Ekberg che le saliva vestita da giovane seminarista. La dolce vita iniziava in quel momento il suo cammino nel mito, uscendo illesa dalle famose, virulente battaglie che ormai fanno parte di un'epoca, vincendo nel 1960 la Palma d'Oro a Cannes. A mezzo secolo di distanza da quel ciak famoso, l'omaggio più significativo è stato, fino ad oggi, la realizzazione del documentario Noi che abbiamo fatto La dolce vita, prodotto da Rai Sat. Anche perché i suoi due autori, nel frattempo, sono venuti entrambi a mancare. Il soggetto, infatti, è firmato da Tullio Kezich, scomparso nell'agosto dello scorso anno, proprio nei giorni in cui questa sua ultima opera veniva proiettata al Festival di Locarno, mentre la regia è dello stesso Mingozzi, anche lui spentosi nell'ottobre scorso, all'epoca giovane aiuto regista del maestro riminese e da lui costretto nella parte, breve e intensa, di un giovane sacerdote. Le riprese durarono sei mesi. Furono, come racconta Marcello Mastroianni, “di totale abbandono, di felicità completa”. Per altri quella felicità rimase un miraggio, l'effimero battito di una stagione irripetibile del cinema italiano. Per Fellini, si trattava di raccontare una “vita dolce” e molte interpretazioni gli vennero cucite addosso forzatamente, come lui stesso ricorda: “Non ho mai pensato, dando quel titolo, ad una intenzione così moralistica, una intenzione di giudizio, di esprimere sdegni, rabbie, non è nel mio temperamento. Quindi, quando ho pensato a quel titolo, era proprio intendere che questo racconto con dei personaggi anche drammatici, delle situazioni penose, un senso di disagio crescente, nonostante gli stridori, le contraddizioni, lo smarrimento, nonostante tutto questo, parlava della vita che aveva una sua misteriosa, innegabile dolcezza”. Ma chi davvero “fece” La dolce vita? Il verbo usato nel documentario è più che mai appropriato. Perché se oggi i film si girano e si dimenticano, stretti tra esigenze di botteghino e pagine di quotidiani, per Fellini girare era vivere e vivere era fare. Raramente, nella storia del cinema, vita e set si confusero a tal punto che Renato Mambor, all'epoca distributore di benzina in Via Tuscolana (poi divenuto accreditato pittore) si trovò catapultato sulla sfrenatissima pista da ballo allestita all'interno delle Terme di Caracalla soltanto perché sapeva reggere bene i ritmi del rock'n'roll cantati da un allora sconosciuto e già molleggiato Celentano; o come il regista Giulio Questi, scritturato al termine di un'improvvisata visita sul set a Piazza del Popolo, accompagnato niente meno che da Michelangelo Antonioni, amico discreto di Fellini, il giorno della camera ardente seduto silenzioso e solo in un angolo, a vegliare.
Soprattutto, sono le donne di Fellini e della Dolce vita che parlano in prima persona, ciascuna con un piccolo segreto da raccontare: Anouk Aimée, bellissima, che ricorda d'essersi persa, artisticamente, durante le riprese, senza capir nulla di ciò che il film voleva davvero raccontare; Lili Veenman, assistente volontaria alla regia, che di Fellini confessa: “quando non girava, non si sentiva vivo”. Eco ne avranno, invece, le due testimonianze conclusive. Sono il produttore Dino De Laurentis - novant'anni compiuti lo scorso 8 agosto - e l'attrice Luise Rainer, che di anni ne ha compiuti addirittura cento il 12 gennaio scorso. Il primo, è storia risaputa, cedette ad Angelo Rizzoli Sr. il copione della Dolce vita ricevendone in cambio quello de La grande guerra di Mario Monicelli. Se anche quest'ultimo vinse a Venezia, l'aver abbandonato Fellini pone sulle sue labbra la domanda: “Sbagliai?” e la risposta: “E' la vita: alle volte si sbaglia, alle volte si vince”. I motivi che portarono allo “sbaglio” del noto e influente produttore italiano, sono di duplice ordine: morale, perché da buon padre di famiglia rimase inorridito per la cruda immagine dell'omicidio dei figli di Steiner e del suo suicidio, introdotta nella sceneggiatura da Tullio Pinelli che scopriamo essere stato compagno di banco a Torino del suicida Cesare Pavese; più prosaicamente, il timore di perdere denaro, visti i costi astronomici del film. L'attrice tedesca - due premi Oscar consecutivi nel 1937 e 1938 - venne, invece, chiamata in causa direttamente da Fellini: “ho bisogno della tua faccia, ti voglio nel mio film”, la supplicava il regista inondandola di telegrammi. Doveva interpretare un'amante anziana di Marcello. “Federico, questo non va”, le rispose. Chiamò il marito a Londra e si fece portar via in fretta da Roma. Oggi confessa: “Era qualcosa che non volevo e quindi non l'ho fatto e sono terribilmente dispiaciuta perché sapevo che Fellini è ed era un grande artista”. Una donna mingherlina seppe dire di no al gigante romagnolo e alle sirene del successo. Senza “farla”, entrò lo stesso nella Dolce vita.