Quanto possa essere incommensurabilmente grande un piccolo film. E quanto poco vi possa accadere perché tanto succeda in chi lo vede. È un altro impero alla fine della decadenza, ma non vi tramonta il sole, quello del clan Sole, protagonista collettivo dell’opera seconda della catalana Carla Simón, dal 26 maggio in sala con iWonder Pictures, di cui tanto apprezzammo il simile esordio Estate 1993 del 2017.

La poetica delle piccole cose qui ne prende in carico di maggiori, di preminenti, financo di uno scontro di civiltà in cui i cattivi, tra gli altri, sono i pannelli solari. C’è un voltaggio ottocentesco, tanto nella civiltà contadina dei Sole quanto nell’afflato narrativo, in Alcarras, Orso d’Oro all’ultima Berlinale. Premio attribuito quasi per no contest, sebbene il film sia intrinsecamente ed estensivamente belligerante: non elude la natura delle relazioni umane, il conflitto, né la gravità della posta in gioco, ovvero la sopravvivenza di coltivatori di pesche di fronte al progresso e all’avidità. E perché, e come un film con tanti problemi, con tanti temi possa non perdere la luce, possa non solo mostrare ma esaltare la luce di un’estate senza fine che pure sarà l’ultima estate.

Se vorrete parlare di magia del cinema, ecco, potremmo arrenderci, tanto è all’evidenza: Simón ha una commovente forza nell’esibire la fragilità, della famiglia, dell’infanzia, e della sua stessa estrazione, se non destino tout court. Perché i Sole riecheggiano la sua vera famiglia, perché l’eponimo Alcarras è il suo villaggio, perché gli attori tutti non professionisti sono locali, perché la loro lingua è un dialetto catalano, perché non fanno i contadini, lo sono.

Un’altra regista, ossia un altro cinema, avrebbe assegnato – scommettiamo qualsiasi cosa – a Sergi López il ruolo di Quimet Sole, che è padre e figlio al centro del consesso familiare, Simon opta per il non pro Jordi Pujol Dorcel e ne distilla una grandissima prova: per dirne una, ha la schiena spezzata, e riesce a farci sentire il dolore; per dirne un’altra, protesta contro il prezzo miserabile delle pesche all’ingrosso con tale empatia da votarci alla causa. Ma non è l’unico, nella famiglia Sole c’è spazio per tanti, se non tutti, ma la complessità non è mai congerie, l’ensemble non è messa cantata ma nemmeno rapsodia: relazioni sinistrate, piccolo mondo antico a scomparsa, pesche e fichi, pomodori e vino tutto banchetta al residuo posto al sole, ma con metodo, se non con ordine.

Si officia, dunque, la fine, che è in primis quella della parola data: durante la Guerra Civile, il padre di Quimet ebbe dal facoltoso clan Pinyol il diritto di coltivare la terra, ma non c’è una pezza d’appoggio, non c’è uno straccio di carta che suffraghi, e rien ne va plus, i Sole saranno senzaterra. I fichi portati dal patriarca ai Pinyol non sortiranno alcun effetto, ci sarà spazio, ci sarà tempo per un ultimo raccolto, e poi basta: i peschi verranno rimpiazzati dai pannelli solari, e pazienza se i Pinyol all’epoca della guerra vennero protetti dai Sole. Non c’è più parola che tenga, memoria che preservi, ma ancora abbiamo bisogno, noi spettatori almeno, di una guida, un Virgilio che spieghi chi è chi, che cosa succede, a che ora è la fine del mondo, di quello almeno.

Ed ecco Iris (Ainet Jounou), figlia – la più giovane di Quimet - e nipote, cui tocca darci i rudimenti di cosmogonia, ma solo un accenno: molto non sappiamo, molto non sapremo, giacché non sono farmaci, ma relazioni, e i bugiardini, le posologie non hanno domicilio. C’è però la frattura, e scomposta, della famiglia, giacché alla sorella di Quimet, e al di lei marito, tremano i polsi e i Pinyol prezzolando possono rasserenare il futuro. E, ancora, il fratello più grande di Iris, Roger (Albert Bosch), che aiuta il padre, nolente, e coltiva marijuana con lo zio; Mariona (Xenia Roset), la sorella più grande di Iris, che scruta preoccupata; la madre di tutti, Dolors (Anna Otin), che tiene botta; la zia lesbica Gloria (Berta Pipó), che fa da collante.

La marcatura di Simon è a uomo, e donna, eppure Alcarras gioca a zona, che sia indicazione geografica tipicissima, denominazione antropologica controllata, sopra tutto, ambizione umana e retaggio umanista. La camera asseconda, meditabonda quando serve, frenetica alla bisogna, sempre pudica e mai morbosa: la fine è financo spettacolosa, non spettacolare. C’è misura, che è primariamente illuminazione: ogni cosa è illuminata, in Alcarras, senza sovraesposizione però, senza superfetazione dei cari vecchi tempi andati. Viene da non crederci, che sia solo il secondo film di Carla Simón, tanto è maturo, maturo di pesca e di cuore, di occhio e cervello, ma dobbiamo meravigliosamente crederci, anche al contributo italiano, la Kino Produzioni di Giovanni Pompili.

Segreto prezioso, sa tenere la camera rasoterra, ad altezza di bambino e nondimeno guardare in faccia gli adulti e i loro problemi, senza sacrifici apprezzabili né squilibri sanzionabili: torna tutto, insomma, anche il nostro groppo in gola – perché, ve lo siete già scordati quello di Estate 1993? – per un presente che è già passato, sebbene non ancora trascorso. Abbiamo autori in cui ravvisare contiguità poetica, affinità stilistica, prossimità ideologica, per esempio la nostra Alice Rohrwacher, ma la terra di mezzo di Carla Simón non ha estensione fiabesca, non è vocata al non luogo e/o all’altrove, si accontenta di vivere qui e ora, si abbevera – e si bea anche laddove dolente – alla fonte della realtà.

Dunque, un titolo che è luogo, un genius che è loci, un tempo che ha derubricato l’unità di azione e l’unitarietà della parola a contingenza o, peggio, archivio. Eppure, Alcarras s’illumina d’immenso.