Che edizione è stata Venezia 80? Dovessimo giudicare dai commenti a caldo di editorialisti e critici cinematografici inviati al Lido non ci chiariremmo le idee. Troppo diverse, soggettive, parziali, le valutazioni sui film, sulla qualità complessiva della selezione, sulla collocazione dei titoli nel programma, sull’indirizzo politico del festival. L’impressione è che non esiste una Mostra, ma tante mostre quante sono le esperienze, le sensibilità, la cultura, le aspettative di chi la vive, ci lavora, è pagato per giudicare.

Lo abbiamo sperimentato nel nostro piccolo con la lettura quotidiana dei giornali e l’ascolto degli interventi di quanti sono venuti a trovarci nel nostro podcast, A qualcuno piace radio. Un caleidoscopio di opinioni non sempre conciliabili. Il che è sempre un bene quando alimenta un dibattito, allarga gli orizzonti, svela la complessità e illumina nuovi percorsi per affrontarla. È stato stimolante ad esempio il dibattito sul cinema italiano. Non quello da slogan che pure, tra sovranismi veri e presunti, autarchia e rigurgiti patriottici, ahinoi non è mancato (i sei italiani in concorso, il fascio-comandante in apertura, la stoccata di Favino contro i divi americani che vengono a girare in Italia togliendo il lavoro ai nostri connazionali, dimenticando però che Ferrari è anche un potente spot per i doppiatori italiani).

Semmai la questione aperta sulle strategie della nostra industria e della sua classe professionale di complemento, dalla dimensione produttiva (ora che finalmente i budget medi dei nostri film iniziano a essere paragonabili con quelli dei grandi competitor europei, francesi in primis, quale politica attuare per le produzioni indipendenti, spesso fucina di originalità e di nuovi talenti, tema discusso nell’interessante panel di Cultura Italiae, La produzione che verrà, ospitata nel nostro spazio lo scorso 2 settembre?) al tema dei pubblici (a Venezia è stata presentata l’indagine SWG 2023 commissionata dalla Dg Cinema del MIC sulle abitudine di consumo cinematografico degli italiani, che ha segnalato il significativo ritorno in sala dei giovani e dei giovanissimi) e di conseguenza a quello della narrazione e degli immaginari (la conclamata fatica del nostro cinema a intercettare proprio la fascia di pubblico più giovane) e della comunicazione (dove scontiamo ancora un ritardo importante rispetto ai modelli di promozione anglofoni).

La diversità di vedute però può essere anche la torre di Babele della critica. È lecito avere opinioni differenti sui film, laddove sono il frutto di un ragionamento più articolato sulle sue componenti (narrativa, estetica, recitativa, culturale, ecc…), ma se rispondono al solo metro del gusto personale rischiano di diventare semplici esternazioni autoreferenziali di chi le esprime, senza più nessun rapporto costruttivo né con l’opera né con la platea a cui – le opere e le critiche – si rivolgono. La diffusione di voti, stellette e pallini ha esasperato questa tendenza, che potremmo definire “la patologia della pagella”, uno smodato desiderio del critico di salire in cattedra e di rifilare promozioni e bocciature. Fenomeno piuttosto paradossale, proprio ora che le aule si sono svuotate. È come se alla crisi di autorevolezza la critica rispondesse con una parodia del critico autoritario, l’Anton Ego ingombrante che riduce ogni spazio di discussione tracimando con spocchia tranchant su ogni canale, pagina, social. È una sindrome che iniziamo a riscontrare anche in avveduti e preparati colleghi. Non di rado è capitato che alla domanda “Che ne pensi di quel film?”, rispondessero con un laconico “3 stellette”. Forse dovremmo iniziare a eliminare questa sofisticazione del giudizio o magari piazzarla alla fine di una recensione, non subito in testa, impedendo che diventi l’unica cosa che il lettore legge e dunque che riduca la critica – che già non se la passa bene - a un voto.

Se la critica obietta più che orienta, non protetta ma comunque chiusa in un’immaginaria torre d’avorio, è il cinema che scende tra i comuni mortali. Se dovessimo scegliere una fotografia di questa Venezia 80 partiremmo proprio dall’epilogo, da una cerimonia di premiazione tra le più movimentate e significative degli ultimi anni. Dalla lunga dissertazione filosofica di Peter Sarsgaard su silenzio, sciopero di attori e sceneggiatori e intelligenza artificiale, una performance non meno convincente di quella che, in Memory, lo ha portato a vincere la Coppa Volpi, a quel “No all’impunità” pronunciato da Pablo Larraìn a chiusura del suo discorso di ringraziamento. Ma il momento di massima intensità la cerimonia lo ha raggiunto quando a salire sul palco sono stati prima Agnieszka Holland che con voce ferma ci ha ricordato che anche se ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti (“Dal 2014, quando è scoppiata la crisi dei rifugiati, 60.000 persone sono morte cercando di raggiungere l’Europa. In questo momento la situazione che vedete nel film si sta ripetendo. Alcune persone vivranno, altre moriranno: non è vero che non abbiamo le risorse per aiutarle, la verità è che non le vogliamo”), a cui subito dopo hanno fatto da controcampo – in perfetta simmetria politico-umanitaria – gli attori di Matteo Garrone, Seydou Sarr e Moustapha Fall, giusto per ricordarci che quando parliamo di migranti è di persone come noi che parliamo.

Ecco perché il loro non è stato solo un ingresso in scena, ma un disarticolare la scena stessa, piegandola per una volta alle esigenze della vita vera. Un’irruzione prepotente, intensa, emozionante di realtà. Cullati a lungo con l’idea che tutto il mondo potesse stare nel salotto di casa, a disponibilità di telecomando, assistiamo allibiti all’epifania di un cinema che non si accontenta più di essere una finestra sul mondo, ma di farlo entrare dalla porta principale. È probabilmente questa la notizia più importante che la Mostra ci lascia.