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Tony Leung Chiu-Wai in The Grandmaster (Webphoto)
Pensando a Tony Leung, o Leung Chiu-wai, sovviene la bellezza come dato sensibile e, di più, epifania di senso. La bellezza come immagine di sé, di Leung, e immaginario collettivo, di noi: è ammirato da Brad Pitt, Bob De Niro, ma le simmetrie evocano altrui, altrove a Hollywood, ovvero Humphrey Bogart. Per Hemingway Bogey aveva “il viso d’uomo più interessante che abbia mai conosciuto”, e Tony Leung no?
Venezia 80 lo insignisce del Leone d’Oro alla carriera, forte dei tre che ha interpretato: Città dolente (1989) di Hou Hsiao-hsien, Cyclo (1995) di Tran Anh Hung e Lussuria (2007) di Ang Lee. E, ancor più, forte del suo lascito sulla nostra retina: sensuale, elegante, ineffabile, icastico, unico, ha fatto l’amore, quello famosamente attitudinale di Wong Kar-wai e non solo, a propria immagine e somiglianza.
Sette prove con Wong, tra cui Happy Together (1997), In the Mood for Love (2000) e 2046 (2004), tre con John Woo, tra cui Bullett in the Head (1990) e Hard Boiled (1992), due con Hou Hsiao-hsien, Tony è uno che si affeziona, uno che all’ignoto preferisce il consueto, uno che alla recitazione ha chiesto non altro da sé, ma sé al quadrato: “Per questo amo recitare, perché posso esprimere tutti i miei sentimenti come non ho mai potuto”.


Tang Wei e Tony Leung Chiu-Wai in Lussuria (Webphoto)
Il timido che si fa istrione, il riservato mattatore, il tranquillo animale da palcoscenico, ehm, da set: Tony Leung ci nasce, ma deve diventarlo, buttando il cuore oltre la camera. Padre giocatore d’azzardo e assente, madre, che campa lui e la sorella, eletta a personal hero, la scuola privata mollata per problemi finanziari, la serialità televisiva che delizia e inchioda, Maggie Cheung per alter-ego femminile, e il primo successo, A City of Sadness, ovvero Città dolente. Dolente gli si confà, glielo torvi in fondo agli occhi liquidi, nella piega amara senza schifo della bocca, persino sui capelli che luccicano altre epoche e riflettono altre aure: Leung è tecnico, ma sopra tutto irriducibile. Anche a sé stesso: icona schiva, sex-symbol a scomparsa, il suo movimento è la Fuga, il suo metodo – è un method actor? – l’elusione dalle mode del momento, financo dal suo tempo.
L’unione, lui bello, con Carina Lau, una carriera canora pop nei Novanta, l’accesso a Hollywood, sempre negletta, e all’universo Marvel con il non irresistibile Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021), prima, durante e dopo il farsi bandiera, cinematica, di Hong Kong, il vessillo, divistico, della Greater China, dunque la sineddoche dell’attore, e della star, asiatico in Occidente.
Se per Wong Kar-wai “il montaggio consiste nell'eliminare ciò che non ci piace e conservare l'essenziale”, il suo attore feticcio, absit iniuria verbis, è montato: perfetto, ineluttabile, definitivo, questo è il suo Chow in quel Love. Leung si confà, è sincronico e diacronico, assertivo ed evocativo, di media statura e, appunto, giganteggiante aura, è un interprete che eleva le parole a immagini, che ha una macchina del tempo interna, che noi spettatori non vediamo ma ci viaggiamo: con e per lui, “il passato è qualcosa che (il pubblico, NdR) può vedere, ma non può toccare”, a dar retta alla narratrice di In the Mood for Love.


Maggie Cheung e Tony Leung Chiu-Wai in In the Mood for Love (Webphoto)
Cannes lo consacrò miglior attore, lui prima e dopo ci si provò nella versatilità, per generi, lingue e scenari produttivi molto differenti, dalle arti marziali in Hero (2002) di Zhang Yimou, all’action-thriller Infernal Affairs (2002-03) di Andrew Lau e Alan Mak, all’epica di guerra La battaglia dei tre regni (2008-09) di John Woo: “Grazie alle sfaccettature dei suoi molteplici personaggi – osserva il direttore della Mostra Alberto Barbera - ha dato un contributo importante alla ridefinizione dell’immagine tradizionale della star maschile, consacrando la sua unicità sulla scena cinematografica contemporanea”. Non male, per un quiet man confesso.