Nel cinema il perturbante sta nel suono (provate a togliere l’audio da un film dell’orrore). L’unheimlich freudiano, portato già della filosofia ottocentesca, abita quel – per giocare col vocabolario psicanalitico – non sapere supposto che ci tormenta nel limbo tra l’immaginazione e lo sguardo che conosce, la parola che disvela: siamo a casa, e anche no. I suoni non dicono tutto, ma agiscono nel profondo. Ascoltare due che fanno l’amore ci perturba più che vederli, dai genitori nell’altra stanza in avanti (ma cosa combinano, che dicono, cosa sono quei suoni, quei rumori? Lo sapremo, ma già lo sappiamo). Viaggia l’immaginazione, che proprio l’immagine distrugge.

Così La zona d’interesse (ecco la casa) non fa vedere – e d’altronde, per quanti racconti ci siano stati riferiti sui plessi di sterminio, nessuno di noi ha visto, bensì soltanto provato a immaginare – ma solo ascoltare. Il perturbante entra in maniera sottile, come sfondo, mai invadendo il campo acustico del cinguettio nel giardino o della piana conversazione casalinga. L’orrore è un bordone in sottofondo, non in primo piano. Il volume più alto che caratterizza normalmente l’irruzione del perturbante emerge soltanto quando la musica gutturale, mostruosa gorgia sonora, puntella la virata in negativo (sì: mirabilmente espressione del pessimismo dialettico novecentesco – a esempio adorniano – per cui si è condannati all’incompletezza, come appunto obbliga il suono) delle uniche sequenze nelle quali si tocca l’Altro. L’extradiegetico – come dicono quelli che parlano bene – giunge di notte, quando anche volendo non si può ascoltare (ma sentire sì, chissà che razza di sogni facevano i nazisti).

E insomma qui il perturbante è sottile, ancor più coerente con l’angoscia carsica che dovrebbe caratterizzarlo, senza esuberare l’ambiente narrativo centrale. Così non disturba (se non intimamente), soprattutto i protagonisti, che odono – e conoscono, ma appunto sempre in negativo, insufficientemente, almeno moralmente – cosa accade di là: un po’ (interamente, invero) lo so, e mi basta, non voglio sapere (rivedere) di più. Rimuovo. E che se posso chiudere gli occhi, invece all’ascolto sono invincibilmente esposto. “Le orecchie non hanno palpebre”, scriveva R. Murray Schafer facendo in un certo senso eco a Kant per il quale la musica era sfacciata (non ha volto infatti, è tutta sentimento), invadente, perché non ci si può proteggere dai suoni. Il film propone un paesaggio sonoro, con una tonica (secondo il linguaggio di Schafer, uno sfondo tipico di quel luogo) fatta di dolore. Sublimato in riverberi acustici, esattamente come i corpi trasformati in aria. Non si vede alcunché e il suono si proietta visivamente oltre quei muri come fumo, impalpabile, certo, ma quanto lo si nota! Il fumo, la nebbia, l’obnubilazione che dà luogo all’ipotesi, al sospetto, all’insufficienza del sapere, è esattamente la manifestazione visiva più calzante del perturbante: ho sentito bene? Vediamo.

La bomba (in prova) di Oppenheimer è uno spettacolo di luce, ma il terrore arriva – con esacerbata latenza – al boato. Del fulmine ci spaventa il tuono, non il lampo. Anzi questo – più veloce – ci avverte, ci prepara, perché il tuono ex abrupto perturba. Sapere prima, sapere tutto, oblitera ogni perturbazione dello spirito; così i suoni ci tengono svegli, anche a occhi chiusi. L’unico modo per salvarsi è – come nel film di Glazer – far finta di non sentire, rimuovere giustappunto. Però quanto sarebbe banale, questo male, senza quei suoni.