Confine è dove i paesi si dividono ma si può transitare, passare. È faglia, è varco e margine di possibilità per chi fugge ed è in pericolo. Ma confine è anche punto di respingimento, di violenta cinica espulsione, di non accoglienza. Lo raccontano i confini sul mare nella epopea dei migranti cui dalle nostre parti da anni assistiamo, quasi sempre senza alcuna empatia, anzi con delittuosa disumanità. Quella disumanità che racconta riferendosi ad altre zone del mondo (le linee di confine tra Polonia e Bielorussia), Agnieszka Holland nel suo straordinario Green Border.

Un film che ha protagonista l’orrore, e nelle figure umane, una famiglia di profughi siriani insieme a una professoressa di inglese e ad altri individui, i quali tutti, nel tentativo di varcare un confine, e così salvarsi, trovano invece disumanità. Di lì incomincia la loro epopea, un continuo venire rimpallati (perché respinti) da un confine all’altro, cacciati, e truffati, ingannati, brutalizzati, uccisi: mai voluti. Confine diventa allora un luogo astratto, un simbolo immateriale dell’impossibilità del restare umani, limite e limitare di una solidarietà umana che si fa irrintracciabile, che smette di esserci e di operare.

Green Border parla a tutti, è un pugno nello stomaco per chi ne è spettatore, e lo è a partire dalla sua denuncia di questo confine tra i boschi, quella linea che respinge esseri umani e nel farlo li violenta, nel corpo e nello spirito. Anche la martellante, scellerata alternanza di falsa possibilità di poter varcare un confine e poi l’altro, poi di nuovo un confine e poi l’altro, anche quella ticchettante e reiterata illusione è fonte di angoscia. Spettatori, speriamo e ci illudiamo insieme ai profughi, per poi con loro subito dopo atterriti comprendere l’entità di ogni successivo inganno.

Il bianco e nero del film aumenta quel senso di cupo smarrimento, acuisce l’angoscia della visione di un buio che imperversa nel nascondere nuovi agguati, nuove brutali minacce appostate tra gli alberi. Confine diventa allora sinonimo di tragedia, punto di non ritorno perché faglia di morte, traccia che si fa simbolo della banalità del male, della normale anormalità di quel che, lasciato dietro sé ogni senso dell’umano, “s-confina” nell’odio cieco. Perché confine, sempre, anche in senso un po’ meno drammatico, sta a indicare il limite di ogni sintonia, e prima ancora di qualsiasi relazione tra individui.

Felicità

“C’è un confine nell’intesa umana, e non lo varca ardore né passione” ha scritto la grande poetessa russa Anna Achmatova, e di confini invalicabili delle relazioni tra le persone racconta Felicità, il film d’esordio di Micaela Ramazzotti. Lei che per battezzarsi come regista ha scelto di narrare una storia intrisa di infelicità e squallore, una vicenda caratterizzata dall’incontrovertibile dato psicologico per cui nessuno dei protagonisti ha con un altro relazioni reali, che possano dirsi autentiche, frontali, vere. Sola eccezione, il rapporto tra la donna (impersonata dalla stessa Ramazzotti) e il fratello, entrambi accomunati da un’infanzia dolorosa, fatta di disamore e sopruso adulto. Loro due soltanto si parlano e si vedono per davvero, si picchiano selvaggiamente a un certo punto, ma altrimenti si conoscono alla perfezione, e se pure nel loro modo ferito e macilento però si amano, dormono allacciati e respirando soffiano l’uno sull’altra i loro fiati corti, mai ampi, mai liberi né tantomeno liberati. Gli altri – genitori, terapeuti, colleghi, amanti, fidanzati fedifraghi – neppure un solo momento entrano in reciproca, autentica relazione.

Il confine è un muro, spesso e infrangibile, denso di non detti e di non verità – un declivio erto di non vedersi e non capirsi. Anche quando il fidanzato (Sergio Rubini) confessa alla donna di tradire da molto tempo la loro sintonia erotico-amorosa, lo fa con l’argomento che lei di lui “non ha mai visto niente”. Quella lei che di nome fa Desirée, un appellativo che risuona sarcastico, come un’ironia della sorte, perché è donna nella cui personalità si addensano ogni sorta di mancanze, qualcuno che se desidera lo fa in modo opaco, disfunzionale tanto quanto disfunzionale è stata la sua intera vita, la sua crescita e ora la sua esistenza adulta, sincopata da un voler prendersi cura degli altri impossibile, come nel fondo curare e amare è impossibile per chi mai abbia conosciuto l’essere preso in cura, e almeno un poco, amato.

Confine è limite ma anche trappola, insidia. È quella faglia lungo la quale tutto quanto sopravvive dell’umano può a un tratto smarrirsi e far smarrire, essere ritrovato o perduto, dare voce alla musica di un vero incontro umano o piuttosto all’eco drammatica dell’incomprensione, dell’incomunicabilità, della più triste conclusione di tutto quanto umano non è più.