“Non mi sento un’artista tradizionale, non sono mai riuscita a stare al passo con i grandi eventi: mi annoio facilmente, ho paura di ripetermi, sento sempre il bisogno di lanciarmi in nuove sfide, anche a costo di fallire. E alla fine ritrovo sempre la strada”. Shirin Neshat è a Venezia, in occasione della Mostra del Cinema, per ricevere “Le vie dell’immagine. Il premio per le arti visive”, il nuovo riconoscimento che Cinematografo, Giornate degli Autori e NABA, Nuova Accademia di Belle Arti attribuiscono a quei cineasti che si sono distinti in altre pratiche artistiche della visione. Ed è difficile trovare, nel panorama internazionale, figure come lei: fotografa rivoluzionaria, regista capace di vincere un Leone d’Argento con l’opera prima (Donne senza uomini, 2009), artista contemporanea tra le più influenti degli ultimi decenni che ha alternato performance, video, opera lirica.

Un percorso iniziato con Women of Allah (1993–97), una serie di fotografie che esplora la condizione femminile nel fondamentalismo islamico: “Ho trovato l’ispirazione – racconta Neshat in un’affollata masterclass con gli studenti di NABA e del Centro Sperimentale di Cinematografia – quando sono tornata in Iran, il mio paese d’origine, dove mi sono ricongiunta con la sua famiglia e ho potuto osservare i cambiamenti e le battaglie che animano il paese. Quell’opera raccontava le relazioni tra uomini e donne, le lotte e i problemi, la spiritualità e la morte. Il parlamento iraniano mi ha molto osteggiato, ma in quel momento per me si sono aperte le porte del dell’arte”.

Dalle istantanee ai video, il passaggio è stato naturale: “Fare videoarte significa abbattere le mura dei musei e valicare le barriere con il pubblico. Si ha più libertà, si può ricorrere all’astrazione. È qualcosa di poco pop, più difficile da comunicare al pubblico, ma grazie ai video ho conosciuto altri mondi: la danza, la scenografia, le installazioni. A poco a poco ho iniziato a comprendere come il dialogo con il pubblico potesse diventare una parte rilevante del mio lavoro”.

Nel 2000, l’installazione Fervor (“Volevo catturare un insieme di persone, non un singolo”), nel 2008 Munis e Faezah che raccontano gli abusi sessuali subiti dalle donne in una prigione iraniana, molte delle quali in seguito si sono suicidate (“Ho scelto un registro surreale, lo scopo era essere vista in diversi modi, interrogando così gli spettatori sulle possibili angolazioni della storia”. Nel 2016 è stata la volta di due progetti: Roja, legato all’esperienza cinematografica (“Lavorando con gli attori ho capito come relazionarmi con altre persone sul set. E ho iniziato a vedermi riflessa nelle persone che mettevo in scena”), e Sarah (“Una vera e propria proiezione di se stessa: ho iniziato a dar forma ai miei sogni tramite le immagini, raccontando i sentimenti sempre attraverso le immagini e mai tramite le parole”).

Tra i grandi incontri, quello con Natalie Portman in Illusions & Mirror (2013): “Un’attrice di talento e fama, ma ho deciso di rimanere fedele al mio modus operandi: nessuna parola, solo immagini”. Looking for Oum Kulthum (2017) è il ritratto di una cantante egiziana: “Una sfida, mi sono messa alla prova con una lingua che non conoscevo. È la storia dei fallimenti della protagonista e ho potuto imparare meglio la parte tecnica del filmmaking”. A Venezia è tornata l’anno scorso con Land of Dreams, dove usa simultaneamente fotografia e cinema: “Si tratta di una doppia installazione video e una serie fotografica. Ho mandato una fotografa a bussare alle porte delle case americane, chiedendo alle persone quali fossero i loro sogni. La voce inizia lentamente a farsi strada nelle mie opere. Voglio narrare piccole storie, mantenere un ritmo, capire se sia possibile raccontare la stessa storia attraverso diversi punti di vista”.

Il suo è un lavoro estremamente personale ma non autobiografico: “Le storie hanno le radici nella mia esperienza come essere umano. Sono iraniana ma anche nomade. Dell’Iran non posso dire tutto ciò che vorrei e dovrei, così come degli Stati Uniti: non appartengono né all’uno né all’altro paese”. Ma l’arte può essere uno strumento politico? “Non mi interessa il realismo o la denuncia dei problemi politici iraniani, cerco di tenere da parte l’attivismo. Mi piace sperimentare, facendo arte non si dovrebbe mai parlare di giusto o sbagliato, altrimenti diventerebbe propaganda”. Sulle difficoltà nella realizzazione delle sue opere: “Non penso di aver goduto di privilegi: se i miei lavori sono presenti in grandi istituzioni, come per esempio la Biennale di Venezia, è perché non mi sono fatta intimidire da un sistema che tende a escludere alcune categorie di persone da certi lavori”.

E ai giovani dice: “Si deve fare arte rispondendo a una passione e all’inarrestabile voglia di creare, senza pensare al guadagno o alla fama che non portano a nulla. I contatti possono essere importanti ma tutto deve partire dalle idee. È importante circondarsi di persone delle quali ci fidiamo e che possono farci imparare cose che non conosciamo. E dovremmo trovare qualcosa a cui ispirarci, interrogandoci su cosa e a chi vogliamo raccontare, senza paura né arroganza.

*si ringrazia per la collaborazione Beatrice Anaclerio.