Prima la vita, poi il cinema, sosteneva Luigi Comencini, da cui il titolo di lavorazione de Il tempo che ci vuole, dove Francesca, quartogenita del regista, prende di petto il ricordo della giovinezza per esplorare l’inconscio italiano (e viceversa). Sarà che quel film, così fantasmatico e carnale (due corpi che si muovono fuori dal mondo e dentro scenografie che sono stanze nella mente), è un po’ la chiave per capire questa stagione italiana così inquadrata dalle candidature della settantesima edizione dei David di Donatello (la cerimonia di premiazione si terrà mercoledì 7 maggio).

Anniversario importante, da festeggiare più di ieri e meno di domani non fosse altro per un primato: mai c’erano state tre donne in corsa per la statuetta alla miglior regia. Sono la citata Comencini, Maura Delpero (Vermiglio) e Valeria Golino (L’arte della gioia). La favorita per l’opera prima è Margherita Vicario (Gloria!, che potrebbe battere un altro record: diventare la prima donna a vincere come compositrice), unica donna in cinquina, ma ci sono ben quattro registe in gara per il miglior documentario, tutte con opere che, in un modo o nell’altro, parlano dei rispettivi percorsi: Sonia Bergamasco omaggia Duse – The Greatest, Costanza Quatriglio e Il cassetto segreto sulle tracce del padre, Antonietta De Lillo con l’autoritratto L’occhio della gallina, la Lirica Ucraina della giornalista Francesca Mannocchi.

Francesca Comencini con Romana Maggiora Vergano sul set de Il tempo che ci vuole - Foto Francesca Lucidi
Francesca Comencini con Romana Maggiora Vergano sul set de Il tempo che ci vuole - Foto Francesca Lucidi

Francesca Comencini con Romana Maggiora Vergano sul set de Il tempo che ci vuole - Foto Francesca Lucidi

Un altro passo in avanti dopo l’anno scorso, quando furono ben tre le registe premiate a vario titolo (Paola Cortellesi come esordiente più David dello spettatore e David Giovani per C’è ancora domani; Margherita Giusti, miglior cortometraggio per The Meatseller; e Justine Triet, miglior film internazionale per Anatomia di una caduta). Ma stavolta la questione è simbolica, dunque più importante: nonostante la vocale finale, la regia è storicamente appalto e prolungamento del maschile, con tutto ciò che rappresenta in termini di dominio, controllo e potere.

Se è vero, com’è vero, che quella dei David è una storia di omissioni e sottovalutazioni (nonché lacunosa e faticosa da ricostruire), tocca ricordare che le candidature furono introdotte solo nel 1981 (fino al 2002 terne e occasionalmente cinquine, dal 2003 cinquine) e che tuttavia, anche con le nomination, i vincitori sono stati sempre decisi da un gruppo ristretto di accademici con metodi diciamo arbitrari (le cose cambiarono solo dalla metà degli anni Novanta). Sono informazioni necessarie anche per capire come mai i votanti non abbiano mai trovato l’occasione di celebrare il lavoro di Lina Wertmüller (la prima donna al mondo candidata all’Oscar per la regia), Liliana Cavani (una rilevanza internazionale per almeno due decenni) o Cecilia Mangini (un’istituzione del cinema del reale): le prime due sono state risarcite con riconoscimenti alla carriera, alla terza è stato intitolato il David al miglior documentario.

Benché l’introduzione delle candidature abbia dato nuova linfa al riconoscimento, è sconcertante vedere come siano solo dieci le registe nominate dall’81 in poi: è vero che c’entrano gli spazi conquistati nel tempo e una diversa sensibilità sul tema, ma dobbiamo sottolineare che Francesca Archibugi è stata premiata due volte per il miglior film senza essere considerata per la regia (mestiere da maschi, evidentemente), che Cristina Comencini sfiorava l’Oscar ma veniva ignorata dalla nostra Accademia, che Alice Rohrwacher ha dovuto aspettare Lazzaro felice per avere un posto in cinquina (e fermarsi lì: la nostra autrice più internazionale non ha mai vinto un David). Paradossalmente, va meglio quando la regista è al debutto: sei vittorie dall’istituzione della categoria nell’82, tre consecutive nelle ultime edizioni.

Celeste Dalla Porta in Parthenope
Celeste Dalla Porta in Parthenope

Celeste Dalla Porta in Parthenope

(Gianni Fiorito)

Sessantanove anni dopo l’inaugurazione in cui una diva influente come Gina Lollobrigida vinceva per La donna più bella del mondo quasi a dirci limiti e confini della presenza femminile sul grande schermo (e nell’industria), possiamo dire che le cose stanno cambiando. Che mai si era vista un’annata così incentrata sulle donne, sul loro desiderio (non solo Golino ma anche Parthenope, con cui Paolo Sorrentino esalta l’imprescindibilità della donna per un’epica moderna) e sulle loro sfide (Gloria!). E su una generazione in ascesa: le candidate GenZ Tecla Insolia, Celeste Dalla Porta, Romana Maggiora Vergano, Martina Scrinzi confermano la felice tendenza dell’Accademia di puntare su talenti emergenti, con le prime due già onorate con il “Davidino” per le rivelazioni italiane, premio giunto alla seconda edizione. Panorama in cui sorprende l’assenza di Diamanti, corale muliebre onorata con il David dello spettatore ma sostanzialmente ignorata dai votanti.

Ed è sintomatico che l’uomo più centrale di questa edizione appartenga ormai alla mitologia: Enrico Berlinguer (non solo nel film di Andrea Segre ma anche in Prima della fine, il doc di Samuele Rossi: gli anniversari servono per interrogarci su chi siamo e cosa vogliamo), a ribadire ancora una volta quanto amiamo farci schiacciare dal grande avvenire alle nostre spalle. E che l’attore più giovane in corsa, il Francesco Gheghi di Familia, interpreti un parricida è piuttosto significativo: che la rivoluzione di domani sia per un nuovo modello maschile? Ce lo dirà la vita, poi il cinema.