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Papa Leone XIV all'incontro con il mondo del cinema del 15 novembre 2025 © Vatican Media
Nel primo incontro pubblico con i rappresentanti del mondo del cinema, il 15 novembre scorso in Vaticano, Papa Leone XIV ha consegnato un discorso che sarebbe sbagliato liquidare con formali e scontati attestati di approvazione. Contiene indicazioni preziose anche per i non credenti, pone con una chiarezza invidiabile alcune delle questioni spinose del nostro tempo, senza tralasciare problemi molto concreti: tecnologia, lavoro, situazione disperante delle sale.
Mettere in movimento la speranza
Già dall’incipit il Papa definisce il cinema come «un’arte giovane, sognatrice e un po’ irrequieta», e al tempo stesso ormai ultracentenaria: nata come “gioco di luci e ombre” per divertire e impressionare, divenuta «volontà di contemplare e di comprendere la vita, di raccontarne la grandezza e la fragilità, d’interpretarne la nostalgia d’infinito».
In questa tensione tra gioco e conoscenza, svago e domanda di senso, Leone XIV riconosce la natura profonda di un’arte «popolare nel senso più nobile, che nasce per tutti e parla a tutti». Non parla di “cinema religioso” né invoca una catechesi per immagini: parla del cinema tout court, di quello che riempie o non riempie le sale, che circola sulle piattaforme, che modella immaginari.
Da qui la formula che regge il discorso: «Il cinema non è soltanto moving pictures: è mettere in movimento la speranza». Il cinema è davvero sé stesso quando riattiva in chi guarda la capacità di attendere e desiderare qualcosa che non coincide con una ricompensa istantanea. Non si tratta di chiedere finali consolatori, ma di riconoscere che ogni racconto lascia intravedere un margine di apertura o di chiusura: il mondo può non essere presentato come già dato, cinicamente stabilito, ma ancora trasformabile, anche solo in un gesto, in uno sguardo, in una riconciliazione.
La sala come soglia
Uno dei passaggi più felici è la descrizione dell’esperienza in sala: «Entrare in una sala cinematografica è come attraversare una soglia». Nel buio e nel silenzio, «l’occhio torna attento, il cuore si lascia raggiungere, la mente si apre a ciò che non aveva ancora immaginato». Soglia, buio, silenzio, comunità temporanea di sconosciuti: è una fenomenologia essenziale della visione.
In controluce, il Papa oppone a questa esperienza la nostra quotidianità di «schermi digitali sempre accesi», di flussi ininterrotti, di notifiche. Il cinema, dice, «è molto più di un semplice schermo: è un crocevia di desideri, memorie e interrogazioni».
Se la sala è una soglia, il suo declino – in Italia il 2023 segnava ancora circa –23% di presenze rispetto al triennio pre-Covid – non riguarda solo i conti di distributori ed esercenti, ma la perdita di un certo modo di stare insieme: condividere un tempo lento, accettare di non avere il controllo (non mettere in pausa, non velocizzare il video), lasciare che un racconto comune ci attraversi senza zappare altrove al primo segnale di noia.
Quando Leone XIV definisce cinema e teatri «cuori pulsanti dei nostri territori» e invita le istituzioni a «non rassegnarsi» alla loro erosione, interpella direttamente paesi – come l’Italia – in cui il tessuto delle sale si assottiglia, soprattutto fuori dai grandi centri. Che cosa perde davvero un quartiere quando chiude un monosala? Solo un esercizio commerciale o un presidio cittadino?
La domanda è rivolta all’intero ecosistema audiovisivo: siamo disposti a pensare le sale – le multi, le parrocchiali, d’essai – come infrastrutture culturali e non soltanto come “schermi aggiuntivi” in strategie che hanno il centro altrove (tv, piattaforme, social)? Qui la parola del Papa suona più radicale di molti comunicati di settore: non invita a “salvare il cinema” in astratto, ma a capire che senza luoghi in cui educare lo sguardo, la città stessa si impoverisce.
Contro la logica dell’algoritmo
Il discorso si fa ancora più spigoloso quando tocca la logica degli algoritmi. «La logica dell’algoritmo tende a ripetere ciò che “funziona”, ma l’arte apre a ciò che è possibile». E ancora: «Difendete la lentezza quando serve, il silenzio quando parla, la differenza quando provoca».
In poche righe è messo a fuoco il cortocircuito che attraversa oggi anche il cinema italiano: da un lato la necessità di trovare attenzione in un ecosistema dominato da piattaforme e video da pochi secondi; dall’altro la vocazione di un’arte che, per natura, dovrebbe dilatare la percezione, destabilizzare gli automatismi, aprire varchi.
Non si tratta di demonizzare le piattaforme, ma di chiedersi: quanto cinema stiamo pensando già “per l’algoritmo”? Quanto influisce, sulla scrittura, la previsione di come un contenuto potrà essere “tagliato” in clip, spinto da un banner, classificato per il consumo? E al contrario: esiste ancora spazio – produttivo, distributivo, critico – per film che richiedono tempo, che lavorano per sottrazione, che portano lo spettatore in territori meno rassicuranti?
Autenticità dell’immagine nell’era del deepfake
Su un altro fronte, Leone XIV intercetta l’urgenza della nostra “epoca delle immagini” quando parla di autenticità: «Recuperare l’autenticità dell’immagine per salvaguardare e promuovere la dignità umana è nel potere del buon cinema».
Deepfake, manipolazioni virali, immagini di guerra che circolano sganciate da ogni contesto: l’autenticità non è più un dato garantito dal supporto, ma un compito. Il Papa non entra nelle tecnicalità, ma sposta l’asse: un’immagine è autentica se non tradisce l’umanità che mette in scena, se non usa il dolore come ingrediente dello spettacolo.
Non a caso, quando elenca le “ferite del mondo” («La violenza, la povertà, l’esilio, la solitudine, le dipendenze, le guerre dimenticate») aggiunge subito: «Il grande cinema non sfrutta il dolore: lo accompagna, lo indaga». È una discriminante netta, che riguarda documentario, fiction, serie e cinema d’intrattenimento.
La domanda che rimbalza sul cinema contemporaneo, italiano compreso, è inevitabile: che cosa facciamo del male che filmiamo? Come mostriamo povertà, migrazione, periferia, malattia? Le mettiamo in scena come “pezzo di realtà” da esibire a garanzia d’autenticità o come contesti in cui la dignità delle persone è rimessa al centro?
La critica implicita è a una certa pornografia del dolore e del trauma: scioccare, ammassare atrocità, alzare il volume della sofferenza per “smuovere”. Il Papa propone un’altra via: «Dare voce ai sentimenti complessi, contraddittori, talvolta oscuri che abitano il cuore dell’essere umano è un atto d’amore».
Qui la sua visione incrocia la migliore tradizione del cinema moderno: raccontare l’oscurità non per compiacersene, né per condannarla dall’esterno, ma per prenderla sul serio. Non a caso, aggiunge: «L’arte non deve fuggire il mistero della fragilità: deve ascoltarlo, deve saper sostare davanti ad esso». È una piccola pedagogia dello sguardo: accettare di non capire tutto, di non chiudere tutto, di non spiegare ogni cosa.
Questo ha ricadute dirette anche sul modo in cui i film vengono scritti, recensiti, premiati. Quanto spazio lasciamo, nel dibattito critico, a opere che non forniscono risposte facili ma mettono lo spettatore a disagio, lo costringono a rimanere in una domanda? E ancora: quanto siamo disposti, come industria, a sostenere film che non promettono un “messaggio chiaro”, ma la possibilità di attraversare, insieme, uno spazio di ambivalenza?
Continuità con il magistero
Il lessico di Leone XIV si inserisce in una traiettoria precisa. Quando cita Paolo VI – «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» – richiama il Messaggio agli artisti del 1965 e la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, che riconoscevano all’arte un «rapporto naturale e speciale» con la Chiesa e all’artista una funzione quasi profetica.
La novità sta nel fatto che qui l’oggetto non è più l’“arte” in astratto, ma l’audiovisivo contemporaneo: il cinema in sala e sulle piattaforme, le immagini che scorrono sugli smartphone, la narrazione seriale che struttura il tempo quotidiano. È su questo terreno – tecnologico, antropologico, sociale e culturale – che il Papa aggiorna il magistero: non si rivolge solo agli “artisti” intesi come élite creativa, ma a chi lavora dentro l’ecosistema che oggi plasma la percezione di miliardi di persone, fin dall’infanzia.
Quando Leone XIV parla di sale come «cuori pulsanti», di algoritmi che «ripetono ciò che funziona», di «autenticità dell’immagine» da salvaguardare, traduce il vecchio appello alla bellezza in una serie di domande concrete sull’uso e sull’abuso delle immagini oggi. Non è più solo la Chiesa che si rivolge agli artisti: è un’istituzione che prende posizione dentro il nuovo ecosistema mediale.
Al tempo stesso, molte sue affermazioni trovano risonanze nel dibattito laico. L’idea che il cinema “educa lo sguardo” e “dilata l’immaginazione” dialoga con il pensiero di Bazin, Deleuze, Rancière; la difesa delle sale come “cuori pulsanti” incontra le analisi di chi studia l’impatto della crisi degli esercizi sulle città; la critica alla logica dell’algoritmo si affianca alle preoccupazioni di filosofi e sociologi sull’industria dell’attenzione. Su un terreno spesso polarizzato – Chiesa da una parte, cultura laica dall’altra – il discorso di Leone XIV apre un corridoio di confronto meno ideologico.
Il set come metafora sociale
Nella parte finale del discorso, Leone XIV sposta lo sguardo dai contenuti alle condizioni di produzione: «La realizzazione di un film è un atto comunitario, un’opera corale in cui nessuno basta a sé stesso». E snocciola una litania di mestieri: assistenti, runner, trovarobe, elettricisti, fonici, attrezzisti, truccatori, acconciatori, costumisti, location manager, casting director, direttori della fotografia e delle musiche, sceneggiatori, montatori, tecnici degli effetti, produttori.
Un film, sta ricordando, non è mai il prodotto di un singolo, ma il risultato di una cooperazione complessa. Ma c’è di più: il Papa contrappone questo modello al clima dominante. «In un’epoca di personalismi esasperati e contrapposti, ci mostrate come per fare un buon film è necessario impegnare i propri talenti […] in un clima collaborativo e fraterno».
Il set diventa così metafora sociale, un luogo dove carismi diversi sono chiamati a lavorare insieme, non a farsi guerra. Ed è inevitabile che il pensiero corra alle condizioni reali del lavoro audiovisivo: precarietà, disparità di riconoscimento, abuso del volontariato, sfruttamento delle giovani maestranze. La giustizia all’interno della comunità del cinema non è un dettaglio.
Questioni di attualità
In controluce, il discorso di Leone XIV tocca tre fronti caldissimi.
Il primo è la crisi delle sale e il loro riposizionamento: misure straordinarie, campagne di promozione, sperimentazioni di prezzo e orari non bastano se non si riconosce alle sale una funzione di presidio culturale e sociale. L’appello a «non rassegnarsi» interroga direttamente chi scrive le politiche pubbliche.
Il secondo è la regolazione delle piattaforme e dell’IA: mentre Europa e stati nazionali discutono di Digital Services Act e AI Act, il richiamo del Papa alla “autenticità dell’immagine” e al rischio di algoritmi che ripetono solo ciò che funziona offre una cornice antropologica che va oltre la tecnicalità delle norme.
Il terzo riguarda il rapporto tra immagini e conflitti: guerre, crisi climatiche, migrazioni sono sempre più raccontate attraverso dispositivi audiovisivi ibridi – news, docu-fiction, clip social. L’invito a non sfruttare il dolore, ma a “accompagnarlo e indagarlo”, suona come un criterio elementare per distinguere informazione, cinema e propaganda.
Pellegrini dell’immaginazione
Infine, colpisce il modo in cui il Papa chiama per nome chi lavora nel cinema: «pellegrini dell’immaginazione, cercatori di senso, narratori di speranza, messaggeri di umanità». È un lessico che, senza pretendere adesioni di fede, attribuisce al cinema una responsabilità alta: contribuire a dire che cosa è un essere umano, che cosa può sperare, che cosa teme, che cosa desidera.
In un momento storico in cui le immagini ci assediano ovunque, l’udienza vaticana del 15 novembre non è un pittoresco intermezzo di protocollo: è un invito a prendere sul serio il potere e la fragilità del cinema.
La domanda, ora, è tutta sulle nostre spalle: che cosa facciamo, concretamente, di questo invito?
