God Save Horror. Non ha dubbi Paolo Strippoli: “Il genere più nobile del mondo, quello che mi ha salvato la vita”. Nessuna sorpresa dunque se, dopo aver co-diretto con Roberto De Feo A Classic Horror Story (“Grazie a Netflix per l’opportunità, ma stavolta volevo avere più libertà d’azione”), il giovane filmaker pugliese è tornato sul luogo del delitto anche per la sua seconda prova in regia, stavolta da solo: ecco Piove, dal 10 novembre nelle nostre sale con Fandango e la zavorra di uno sconsiderato “divieto ai minori di anni 18”, stabilito dalla solerte Commissione per la Classificazione Opere Cinematografiche del MIC. Una storia di malintesi e miopia tutta italiana.

Un horror nemmeno puro, ammesso ne esistano. Un camuffamento nero, nerissimo, di un dramma familiare di cui non faremo spoiler. Una storia di traumi irrisolti, di rabbie represse, di temperatura emotiva che sale e sale come il vapore mefitico che fuoriesce dai tombini della Capitale e avvelena gli animi. Una Roma trattata come una grande periferia, di erbacce e vetrate ed edifici sventrati, personaggio tra i personaggi.

Fumo di Roma, volendo storpiare il titolo di un film di un romano doc come Alberto Sordi.
“In effetti più ancora della pioggia, è il vapore l’elemento scatenante qui”.

Fumi e vapori mefitici. Siamo dentro un immaginario da sciagura ambientale.
“Ti racconto un aneddoto. Quando vivevo in via Ceneda, zona Re di Roma, godevo di una strada molto bella, con alberi che profumavano. Nel corso degli anni la zona è stata deturpata. Si è accumulata talmente tanta spazzatura sotto casa che quando pioveva si alzava una puzza nauseabonda. Uguale quando batteva forte il sole. Ci abbiamo pensato spesso quando abbiamo scritto Piove (sceneggiatura a sei mani con Jacopo Del Giudice e Gustavo Hernandez, ndr). Volevamo partire proprio dalla spazzatura dei sentimenti.”

Definizione azzeccata. Mi ricorda che dalla pandemia non ne siamo usciti migliori.
“Esattamente. Credo anzi si sia accumulata così tanta insofferenza, così tanta rabbia, che da qualche parte dovrà pur uscire. Questa cosa mi mette ansia.”

I cattivi pensieri non evaporano.
“Magari evaporano ma non scompaiono. Se qualcuno si uccide lì, in un piazzale, resta lì. Sarà banale ma la violenza genera sempre violenza. È un circolo vizioso. È una melma che si accumula per anni. La pioggia è l’elemento che attiva questa melma. Viene su, sotto forma di vapore, ed entra nelle persone. Prendi me. Sono sempre stato un tipo pacifico. Ora invece mi capita di aver voglia di picchiare qualcuno. È un impulso che mi terrorizza.”

Decisamente più sano fare film dell’orrore.
“L’horror è esorcizzante. Abbiamo un’attrazione fisiologica verso il macabro e siamo affascinati morbosamente dalla cronaca nera. Se riusciamo a incanalare questa tendenza verso l’horror, verso la violenza al cinema, scopriamo quanto possa essere curativo. Quando sono andato via di casa ho avuto un rifiuto per i tg. Mi riempivano d’orrore. Ho sentito che iniziava a crollare qualcosa dentro di me. L’horror non ti dà mai questa sensazione, ti getta se vuoi in un abisso più profondo ma poi ti tende la mano. Senza essere rassicurante, ti dice qualcosa sulla violenza. Ti lascia magari una cicatrice ma ti offre anche qualcosa di più. Vedere un femminicidio alla tv invece non mi lascia nulla, solo sconforto e rabbia. I giovani andrebbero educati all’horror.”

Quando è iniziata la tua educazione al genere?
“Molto presto. Quando ero un adolescente a Corato, un paese di 55 mila abitanti della provincia di Barletta, ero famoso per le notti horror del 23 dicembre, che organizzavo a casa mia con un gruppo di amici. Televisore con registratore incorporato, vhs de La Casa e via, si passava del tempo insieme.”

Quali altri film proponeva il cinemino di casa Strippoli?
“Fondamentalmente La casa e i suoi sequel. Amavo quei film. Ed erano più digeribili per la platea di un Esorcista, che pure ogni tanto azzardavo. Il problema con L’Esorcista è che è un dramma bergmaniano che diventa horror dopo un’ora e mezza.”

Le vie dell’horror sono infinite.
“In un horror può accadere di tutto. Puoi usarlo per raccontare in maniera allegorica qualsiasi cosa. L’horror metafisico ad esempio prende la paura del vuoto e l’affronta di petto più di qualsiasi altro genere. Anche della fantascienza che ha dei codici più stretti e vira spesso verso il politico. Anche se qualcuno potrebbe avere da ridire su questo.”

Di sicuro se c’è un genere capace di affrontare il Male con la M maiuscola, quello è l’horror.
“La secolarizzazione ha imposto anche al male di rientrare in un perimetro umano. Il limite però è quando devi spiegare l’imponderabile. Quando le risposte sociologiche e culturali non bastano. Questa dimensione del Male, questo rimando a un mistero che ci precede e ci oltrepassa, invece l’horror è riuscito a trattarla.”

Parliamo del suo versante più inquietante.
“Certo, ma anche in questo caso l’horror è benefico. Ad esempio, nel raccontare la follia magari non darà una soluzione ma può utilizzarla per raccontare parabole, per lanciare un monito. A prescindere dal tema, compie sempre un’operazione di sguardo che utilizza il tema e lo domina. Ecco perché è il genere più nobile del mondo: prende tutte le cose negative e le fa diventare discorso. È qualcosa che ti fa uscire dalla sala migliore.”

Non trovi che sia diventato troppo “teen”?
“Forse, ma è un genere che fa bene agli adolescenti. L’adolescenza è un trauma e il genere migliore per raccontarlo è l’horror. Attraverso “lo scuro” del genere puoi essere più sincero, più ancora del teen movie. Uno dei film sull’adolescenza che ho più amato del resto è un horror: Lasciami entrare, un grande romanzo di formazione. Ma potrei citarti Carrie e The Witch.”

Chi sono stati i tuoi maestri dell’horror?
“Impossibile citarli tutti. Se restiamo in Italia, ti dico Lucio Fulci e Dario Argento.”

A Corato riuscivi a vedere i loro film?
“Vedevo di tutto. C’erano due cinema: uno d’essai che poi ha chiuso e l’Alfieri, che mi ha cresciuto. La mia formazione cinefila nasce lì, con tutto quello che passava. Il 24 dicembre per dire andavo a vedere i cinepanettoni, non me ne perdevo uno.”

Poi hai smesso?
“Hanno smesso i cinepanettoni.”

E i vhs?
“Sono stati l’altra grande palestra di cinema. Ero un habitué dei videonoleggi, dove mio papà mi portava ogni sera. Prendevamo una cassetta e il giorno dopo la riconsegnavamo. La passione per gli horror nasceva anche da questa frequentazione, perché le locandine horror che i videonoleggi esponevano erano sempre le più cariche, forti, pittoriche: ti facevano venire voglia di prenderle”.

Dopo il liceo, come molti diplomati del Sud, ti sei trasferito a Roma.
“Avevo 19 anni. Mi ero scritto al DAS, Dipartimento Arti e Spettacolo de La Sapienza. Ma avevo pochi amici, frequentavo poco e tornavo spesso a Corato da dove studiavo a distanza. Fino a quando non sono stato preso al Centro Sperimentale di Cinematografia a 21 anni.”

Una bella svolta.
“Sì. Ho frequentato il corso in regia con maestri come Gianni Amelio e Daniele Luchetti. E dire che non volevo nemmeno provarci all’inizio. L’opportunità del CSC mi spaventava. Mi dicevano che entravano solo i raccomandati. In realtà i selezionatori sono persone estremamente serie.”

La tua prima esperienza sul set?
La tenerezza di Gianni Amelio. A lui devo di più. È stato il mio maestro. Fondamentali sono state anche le esperienze di stage in Io sono tempesta di Daniele Luchetti e Troppa grazia di Gianni Zanasi. Set quest’ultimo tosto ma molto bello. Giravamo nei campi assolati del Lazio, io portavo gli ombrelli e li mettevo sopra le attrici. Quando arrivava il drone ti dovevi togliere immediatamente dal quadro e buttarti dietro il primo trattore vicino. Tornavo a casa ustionato”.

L’insegnamento più grande che hai tratto da ciascuno di loro?
“Tutti e tre facevano molta attenzione agli attori. Prima non capivo l’importanza dell’attore. Come tutti i registi in erba ero focalizzato sulla camera, la ripresa. Un’altra lezione decisiva riguarda il senso che deve avere ogni inquadratura. A volte mi incazzo con i registi che fanno inquadrature senza un motivo preciso. Ogni inquadratura deve avere un perché.”

Quanto ti fanno arrabbiare invece le critiche?
“A me la critica piace, la trovo spesso illuminante. Spesso però parla solo di temi, sottotesti. Pochi si soffermano sulla costruzione discorsiva del film. Quando capita, è bello. Quando da spettatore non capisco il perché di un’inquadratura mi arrabbio. Preferisco un film non riuscito che un film insensato, un film che vuole avere uno stile senza che questo abbia una necessità”.

A giudicare da come la tratti nel film, Roma non deve avere avuto un impatto facile.
“Roma è una città difficile, non sempre accogliente. Ma ti dà la possibilità di scoprire un cinema diverso. La cosa più estrema che ero riuscito a vedere a Corato era stata un film di Lars Von Trier. Il cinema, quello decisivo, l’ho scoperto a Roma e al CSC. Non me ne andrei mai da qui. Noi emigrati poi abbiamo il vantaggio di poter sempre tornare a casa, alle nostre origini. A me questo dà una calma incredibile.”

Di che ha paura invece Paolo Strippoli?
“Di tante cose. Del male che non capisco. Di quello che potrebbe accadere. Di perdere qualcuno, qualcosa, il senso stesso della vita. Di disintegrarmi, non solo da un punto di vista fisico. Il mondo è un posto spaventoso.”