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Minority Report
“La verità vi farà liberi” (Gv 8,32)
Quindi, laddove non c’è verità non c’è libertà. Non mancano, meno male, coloro che ci aiutano a riflettere su come un uso distorto dell’intelligenza artificiale applicata all’informazione e alle immagini sia un pericolo per le libertà personali e per la sopravvivenza di società democratiche, il più possibile libere.
Nel tempo delle fake news fabbricate e diffuse grazie all’AI, di immagini che – generate con la stessa tecnologia – nulla hanno a che fare con il reale e spesso nemmeno con il verosimile (non dico il vero…), comprendiamo il pericolo per l’autenticità delle nostre scelte, qualora giudichiamo a partire da informazioni ed immagini artefatte al fine di influenzarci.
In un tempo in cui l’intelligenza artificiale è in grado di generare scene, volti, parole e persino emozioni suscitate a comando, il cinema è chiamato a interrogarsi sulla sua vocazione più profonda. Non basta più incantare lo spettatore con effetti speciali: bisogna tornare a cercare immagini irrevocabili, da salvare e che possano essere occasione di salvezza per la nostra memoria, le nostre esperienze, le nostre speranze. Immagini autentiche, vere, di quella verità che ci rende liberi perché non ci relega alla schiavitù di rappresentazioni che vogliamo solo accomodanti, tranquillizzanti, a nostra misura, sterilizzate dal rischio di ulteriori e faticose profondità che possano turbarci nelle nostre rassicuranti certezze costruite a fatica.
Ma che senso assume oggi la dichiarazione di immagine “vera” al tempo dell’intelligenza artificiale e delle infinite possibilità che ha nell’audiovisivo di costruire – a comando dei prompt – rappresentazioni immaginate e non accadute? Da sempre il cinema si muove su un crinale sottile: tra realtà e finzione, tra rappresentazione e incarnazione.
Ma oggi, in un’epoca in cui la tecnica può simulare ogni cosa, la questione si fa più urgente: può ancora l’immagine essere luogo d’incontro con il reale? Oppure diventa solo riflesso, simulacro, illusione? André Bazin scriveva che il cinema è “una ontologia dell’immagine fotografica”: non perché si limita a riprodurre il mondo, ma perché lo rivela, lo custodisce, lo interroga. Ogni fotogramma, nella sua immobilità, non si preoccupa di restituire una realtà (il cinema ha come materiale grezzo una finzione, non dimentichiamolo) ma è tale quando lascia trasparire un frammento di mistero. Robert Bresson, cineasta dell’essenziale, ammoniva: “Non filmare ciò che è visibile, ma ciò che è invisibile nel visibile”. Un’idea di cinema come atto spirituale, non solo estetico.
Al netto di un utilizzo di queste tecnologie – più o meno giustificabile – per questioni economiche (il virtuale nel cinema può portare a risparmi sui budget di attori, scenografie, costumi, effetti…), una riflessione sullo statuto dell’immagine è da porre per capire se è e sarà ancora cinema quello che l’intelligenza potrà realizzare. Quale rivelazione della realtà potrà produrre un’immagine figlia di meticolose istruzioni, rispetto ad una scaturita dall’incontro di uno sguardo autoriale capace di cogliere il mistero che la realtà custodisce con le epifanie del mistero stesso del reale?
Profetico a riguardo il pensiero di Pier Paolo Pasolini, che già negli anni Sessanta metteva in guardia da un linguaggio audiovisivo omologato e consumistico: “Viviamo in un mondo dove la realtà è diventata irreale e la finzione è scambiata per verità”. Per lui il cinema doveva essere “di poesia”, cioè incarnazione di uno sguardo personale, soggettivo, a volte lirico, mai neutro. “Un linguaggio che non documenta, ma interpreta”. Un cinema che non sia copia conforme della realtà, ma la sua trasfigurazione.
Eppure, l’intelligenza artificiale oggi rischia di espropriare e spegnere proprio quello sguardo. Se un algoritmo può scrivere, montare e persino “recitare”, che ne sarà dell’anima del cinema? Dove sarà la sofferenza e l’intelligenza dell’attore, la visione e l’intenzione del regista, l’attesa e il desiderio di inedito del pubblico? L’immagine perde il suo valore se non è abitata da un’esperienza e da una spiritualità umana. Nel libro della Genesi, assistiamo a Dio che crea l’uomo dalla polvere e vi insuffla il suo spirito (Gen 2,7). Anche il cinema, quando è arte vera, replica questo procedimento: prende materia povera – corpi, volti, parole – e vi infonde un soffio, una vita. Non c’è intelligenza artificiale che possa imitare il mistero di questo gesto creativo. Solo l’uomo può generare immagini che custodiscano una presenza. Per questo il cinema di oggi ha una missione ancora più chiara: resistere alla tentazione dell’onnipotenza tecnologica e scegliere l’imperfezione, l’incompiutezza, la carne. Tornare alla realtà non come vincolo, ma come via di salvezza. Perché solo ciò che è ferito può commuovere, solo ciò che è vero può toccare.
Il cinema che cerchiamo non è quello che inganna, ma quello che accompagna. Non quello che anestetizza, ma quello che desta. In un’epoca che ha smarrito il volto dell’altro, il compito dell’immagine non è replicare il mondo, ma rivelarne la profondità.