Esiste l’aristocrazia hollywoodiana, quella delle dinastie dello star system che si rinnovano di generazione in generazione: a volte eguagliando gli avi, altre ancora superandoli e altre rimanendo schiacciati dal mito. Hanno radici lontane e rami intrecciati tra i continenti: i Barrymore, i Douglas, i Fonda, gli Huston, i Dern. E poi ci sono le case reali europee, famiglie che incrociano nazionalità e culture. Alcune sono antiche, altre nascono dal destino e dall’amore.

Come quella formata da un’attrice europea che trovò fama, successo, popolarità, premi in America e da un avventuroso regista che reinventò il cinema, quello del suo Paese e non solo. Il corteggiamento fa parte della leggenda (“Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei...”), l’amore travolge tutto (compresa la relazione tra quel regista e la più grande attrice del suo tempo, il tesoro nazionale Anna Magnani), arrivano i figli.

Due di loro, da grandi, capiscono che non si può fare a meno del cinema. Che hanno una storia alle spalle, un’eredità da preservare, un patrimonio da tramandare, una vocazione da assecondare. Uno, Renzo, si lancia nella produzione, con la Gaumont. L’altra, invece, debutta sullo schermo con la mamma: un’apparizione fugace eppure indimenticabile, perché nel commiato dell’una c’è il battesimo dell’altra.

David Lynch e Isabella Rossellini (Los Angeles, 1988 (c) Foto Helmut Newton, Helmut Newton Estate Courtesy Helmut Newton Foundation)

Forse non un passaggio di testimone, perché la figlia, donna di rara intelligenza, un’intellettuale delle emozioni, non ha mai cercato di imitare la madre, dacché quando la giovane si presenta al mondo il cinema classico è già tramontato se non morto e nuovi autori stanno riplasmando l’industria delle immagini.

Il film di cui parliamo è Nina (1976), passo d’addio di Vincente Minelli, una delle ultime interpretazioni di Ingrid Bergman, che nei minuti finali incontra un’infermiera che ha il volto meraviglioso di una delle sue figlie, Isabella Rossellini, il cui papà, lo sappiamo, è quel Roberto che muore un anno dopo l’uscita del film.

Oggi sarebbe definita una nepo baby, la rampolla privilegiata di un sistema a cui ha avuto accesso dalla porta principale. Ma siccome il cinema è una roba più complessa di un’etichetta, il suo posto nel mondo, Isabella Rossellini, se l’è guadagnato con impegno e dedizione. Impegno perché ha sfidato stereotipi e comodità; dedizione perché si è letteralmente donata a progetti spesso bizzarri, sbalestrati, fuori norma.

In oltre quarant’anni di attività ha ricevuto pochi premi, è vero, ma è difficile trovare un’attrice così trasversale, dotata di un carisma che congiunge la grandeur e la modernità, l’esotismo scandinavo e l’antichità romana, erotica e materna, modella di grido e autrice singolare, musa degli artisti e artista delle muse. David Lynch, certo, tra gli uomini della sua vita (è lei a consegnargli l’Oscar alla carriera nel 2019), che la consacra con Velluto blu e Cuore selvaggio, regalandole ruoli che si incastonano nella memoria.

Isabella Rossellini in Velluto blu
Isabella Rossellini in Velluto blu

Isabella Rossellini in Velluto blu

Ma non è un caso che sin dagli anni Ottanta si conceda a sguardi obliqui ed eccentrici, da Norman Mailer (il controverso I duri non ballano) a Jean-Charles Tacchella (Donne di piacere) fino ad Abel Ferrara (Fratelli) e i debuttanti Campbell Scott e Stanley Tucci (Big Night, piccolo cult), passando per la dolce protagonista di Cugini, la strega della cosmetica nel cult camp La morte ti fa bella, la moglie angosciata di Fearless, l’ungherese Big Nose Kate in Wyatt Earp. Senza dimenticare le partecipazioni più recenti: la Marella Agnella (casting geniale) di Infamous, la mamma di Joaquin Phoenix di Two Lovers, la moglie di Robert De Niro di Joy, l’adorabile nonna in Marcel the Shell with Shoes On.

Più che un risarcimento, il David Speciale della 68a edizione dei David di Donatello è un attestato di stima e, perché no, una dichiarazione d’amore. A una donna che è qualcosa in più di un’attrice: la testimone di una certa idea di cinema che mette insieme il divismo e l’audacia, due qualità che ha evidentemente ereditato dai genitori e che ha ripensato all’altezza del suo tempo, giocando con le aspettative di chi la voleva nel solco materno (lo scandalo di Gian Luigi Rondi che, da direttore della Mostra di Venezia, escluse Velluto blu dalla selezione: i nudi di Isabella e le scene scabrose avrebbero offeso la memoria di Ingrid Bergman) e mai adagiandosi nella comfort zone del typecasting (l’immigrata, la femme fatale, l’europea tout-court).

D’altronde, dopo l’apparizione con Minnelli, fa subito capire che stupire è il suo mestiere, dalla ribelle de Il prato dei fratelli Taviani a Il pap’occhio del sodale Renzo Arbore, strepitoso hellzapoppin in cui coinvolge l’allora marito, Martin Scorsese. È vero, il cinema italiano non le ha dato molto, forse anche per questioni personali dato che Rossellini vive al di là dell’oceano con la famiglia (una figlia con il modello Jon Wiedemann, un figlio adottato da single: pioniera anche nel privato), però ogni tanto si concede, non solo per gli amici (Croce e delizia di Luciano De Crescenzo, altro suo vecchio amore).

Isabella Rossellini (credits: Daniele Cruciani)
Isabella Rossellini (credits: Daniele Cruciani)

Isabella Rossellini (credits: Daniele Cruciani)

E se ne Il cielo cade dei fratelli Frazzi disegna con finezza una zia premurosa martire dei nazisti e ne La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo è una titanica e inquietante matrona, l’aspettiamo nel nuovo film di Alice Rohwracher, La chimera, in concorso al prossimo Festival di Cannes.

Mentre si premura di tramandare la memoria dei genitori (accompagna le proiezioni dei restauri e benedice documentari come Io sono Ingrid e lo straordinario The Rossellinis), appare sempre più evidente che ciò che più le piace è la sperimentazione, come dimostrano il corto My Dad Is 100 Years Old di Guy Maddin (che la dirige anche nell’eccentrico La canzone più triste del mondo), che festeggia il compleanno del papà, e soprattutto Green Porno, performance diventata serie sulla vita sessuale degli animali: una libertà espressiva che in pochi si possono permettere.