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John Hurt ed Anthony Hopkins in The Elephant Man (1980) - @Webphoto
Succede così: un giorno, nel 1979, in un diner di Los Angeles, Mel Brooks guarda un ragazzo pallido, allampanato, dai capelli disordinati come fili di rame sotto una nuvola di umidità industriale. Ha appena finito di vedere il suo primo film — Eraserhead, uno di quei film che ai party intellettuali o nei dormitori universitari o in certe cinefile camere d'albergo si guardano di notte, un po’ per sfida, un po’ per sentirsi più dotti, un po’ per puro masochismo estetico. Brooks, che ancora per contratto non si chiama Mel Brooks Productions — userà il nome della moglie, Anne Bancroft, per non far pensare a una commedia — gli stringe la mano: «Hai il lavoro».
Il lavoro è la regia di The Elephant Man. Un budget vero, attori veri, produzione vera. Londra vittoriana, non lo squallido bianco-e-nero suburbano dei suoi incubi precedenti. E soprattutto un soggetto che avrebbe potuto divorarlo in pasto alla convenzione hollywoodiana. Joseph Merrick — anzi John, per un clamoroso refuso storico — l’uomo-elefante, l’uomo mostro, il freak definitivo.
E invece no. Non lo divora. Lynch non viene divorato dal sistema. Fa il suo film, ma resta Lynch. Anzi: Lynch diventa Lynch proprio qui.


The Elephant Man (1980) - @Webphoto
The Elephant Man (1980), tornato in sala fino a domani in versione restaurata 4K (grazie a StudioCanal e Lucky Red), è il primo grande paradosso della carriera di Lynch. Il film con cui entra ufficialmente a Hollywood senza entrare mai davvero a Hollywood. Un’opera che prende un personaggio da freak show e lo sposta su un piedistallo di tragedia classica. Non più lo “one of us” urlato dai deformi di Browning in Freaks (1932), ma un I am not an animal. I am a human being che è il nuovo urlo fondativo del cinema sulla diversità.
John Merrick (interpretato da un eroico John Hurt, sotterrato per 8 ore al giorno sotto protesi elaborate direttamente sui calchi autentici di Merrick: il make-up artist Christopher Tucker usa il vero gesso ottocentesco) non è più l’aberrazione che alimenta il voyeurismo dei circhi o la pornografia medica vittoriana. È l'altro assoluto che chiede pietà al nostro sguardo. Lynch costruisce il suo film non sul mostrare, ma sull’impossibilità di guardare.
Eppure, The Elephant Man è un film pieno di occhi.
Ci sono gli occhi umidi del Dr. Treves (Anthony Hopkins), che inizialmente lo compra e lo esibisce come un oggetto da collezione filantropica (Lynch qui sfiora con delicatezza la zona grigia della benevolenza paternalistica). Ci sono gli occhi della madre, in quella visione onirica con cui Lynch apre il film — un incubo lisergico di elefanti che travolgono il corpo femminile, quasi a inscrivere geneticamente il destino mostruoso di John. E poi ci sono, soprattutto, i nostri occhi.


Anthony Hopkins in The Elephant Man (1980) - @Webphoto
Lynch ci obbliga a vedere ciò che non vogliamo vedere. Ma non per sadismo estetico. Al contrario: perché soltanto vedendo possiamo finalmente smettere di guardare come spettatori da baraccone e diventare, se non altro, testimoni etici. The Elephant Man è un film sulla pedagogia dello sguardo.
Strano destino il suo agli Oscar del 1981. Otto nomination, zero statuette. Regia, film, attore protagonista, fotografia, montaggio, scenografia, colonna sonora, costumi. Tutto. Ma nulla. Eppure proprio qui, nel non-premio, nella sua assenza, il film diventa una forza normativa: l’Academy, scandalizzata dall’assenza di una categoria che riconoscesse il lavoro di Tucker, crea per l'anno successivo il premio per il miglior trucco. Senza The Elephant Man, nessun Oscar al make-up.
Il paradosso continua: è il film che non vince, ma che cambia le regole. È il film che resta, più di molti vincitori.


Freddie Jones ed Anthony Hopkins in The Elephant Man (1980) - @Webphoto
E resta anche come snodo culturale nella rappresentazione del "mostruoso". Da Browning in poi, la genealogia cinematografica dei freak evolve da corpi esposti a soggettività narrate. Se Freaks ingaggia ancora la logica interna del circo (con la sua ferocia quasi tribalistica: il mostro punisce l’umano), Lynch compie il salto pienamente moderno: la mostruosità diventa specchio dell’umano. Dopo di lui, Cronenberg rileggerà la mutazione (penso al Fly del 1986), mentre il cinema postmoderno degli anni ’90 e 2000 — da Il mio piede sinistro a Wonder — inizierà il lungo processo di risignificazione del corpo deforme come corpo narrabile.
Ma l’operazione lynchiana non è semplicemente morale. È metafisica. E qui Lynch comincia a essere propriamente Lynch.
Se guardiamo bene The Elephant Man vediamo i semi di tutto ciò che diventerà il suo cinema. C’è la poetica dell’innocenza ferita — che sarà poi Dorothy in Blue Velvet, Laura Palmer in Twin Peaks, la Naomi Watts di Mulholland Drive.
C’è la composizione acustica ipnotica, fatta di ronzìi industriali, di respiri meccanici, di rumori da sala operatoria mentale (il sound design qui ancora incerto diventerà la vera sinfonia disturbante di Eraserhead e oltre).
C’è la violenza latente, che esplode nella sequenza agghiacciante dei visitatori notturni ubriachi che invadono la stanza di Merrick come zombie post-vittoriani.
E c’è l’onirismo che sfuma nel cosmico: quella meravigliosa dissolvenza finale che trasforma il volto deformato nell'immagine cosmica della nebbia stellare — preludio ai buchi neri e alle pieghe spazio-temporali del suo cinema successivo.


David Lynch in una foto da giovane. @Webphoto
Lynch entra nel sistema, ma non smette di sabotarlo. Fa un film perfettamente leggibile, emotivamente devastante, eppure intriso di quelle ambiguità, di quelle zone liminari che faranno di lui uno dei più profondi mistici dell’immagine contemporanea.
C'è poi un'ultima cosa da dire — forse la più lynchiana di tutte.
The Elephant Man è un film sulla compassione, sì, ma è anche un film sul potere di chi guarda. Chi concede a Merrick il diritto di esistere socialmente? Chi lo "autorizza" a essere umano? La regina, il medico, l’attrice famosa (Anne Bancroft, appunto), il pubblico stesso. In fondo, The Elephant Man è un film atroce perché ci ricorda che l’essere umano non è mai tale per diritto naturale, ma sempre per grazia altrui. È umano in quanto riconosciuto come tale.
Ecco la vertigine. La mostruosità non è nel corpo di Merrick. È nei nostri occhi.
Oggi, nell’immagine restaurata e impietosamente cristallina del 4K, The Elephant Man torna a guardarci. Chiedendoci ancora, dopo 45 anni: che cosa vedi, quando mi guardi?