La sua opera prima, Little Odessa, James Gray l’ha girata a soli 25 anni: come ci è riuscito? “Un produttore aveva notato un film che avevo realizzato al college. Mi propose delle sceneggiature, le rifiutai tutte. Pensavo di poter fare di meglio, di essere il migliore. E invece non sapevo niente. Ero uno stupido, arrogante. Ed ero depresso perché era appena morta mia mamma. Al primo montaggio, mi cadde il mondo addosso: era la cosa peggiore che avessi mai visto, da allora il mio ego non si è più ripreso. L’ego ti ammazza”.

È un James Gray in gran forma, quello che si è donato al pubblico della Festa del Cinema di Roma. È uno dei protagonisti di Absolute Beginners, la sezione del festival in cui i registi ripercorrono le loro prime esperienze dietro la macchina da presa. E, nel suo caso, è anche l’occasione per presentare l’ultimo lavoro, Armageddon Time, già in concorso all’ultimo Festival di Cannes e nel palinsesto di Alice nella città in coproduzione con la Festa.

“C’era appena stato l’exploit di Quentin Tarantino con Le iene – ricorda Gray – quindi prendemmo Tim Roth che era molto popolare. È diventato un mio amico, anche se non ci frequentiamo spesso, così come lo era il compianto Maximilian Schell. Mi piace il dialogo con gli attori: ho avuto la fortuna di conoscere gli ultimi grandi insegnanti dell’Actors Studio che mi hanno aiutato a capire cosa serve a un interprete”.

E da Little Odessa qualcosa è cambiato: “Ho deciso di essere onesto, voglio che i miei film rivelino me stesso e la storia della mia famiglia. Ma sono trent’anni che non lo rivedo: ci ho provato una volta e ho notato solo errori”. Tra il primo e il secondo film sono trascorsi sei anni, tra il secondo e il terzo sette: perché? “Non volevo fare cose che non mi interessavano. Ho avuto problemi a girare un film con grande budget, Harvey Weinstein ha fatto tutto ciò che poteva per impedirmi di lavorare. Dopo il terzo film, I padroni della notte, sono riuscito a essere più costante”.

Fil rouge della sua opera è il crime: “Ma non lo considero un genere. Mio padre aveva problemi con la legge, la polizia è stata molto presente nella mia vita: per me il crime è un tentativo di rappresentare uno spaccato del mondo. Ma ciò che mi interessa davvero è sovvertire, decostruire, interpretare i generi”. Ad Astra, il suo precedente film, ribaltava il genere della fantascienza? “L’intenzione era quella, pensavo a 2001: Odissea nello spazio. Ma è stato un’esperienza frustrante. Non ho avuto il final cut: la mia versione era più breve ma aveva più cose. E non c’era la voce narrante”.

James Gray (foto di Karen Di Paola)
James Gray (foto di Karen Di Paola)
James Gray (foto di Karen Di Paola)

Non nega la sensibilità europea: “Sono di New York, una città sospesa tra vecchio e nuovo continente. Abbiamo una cultura liberale diversa dagli altri stati, coltiviamo un rapporto diretto con la memoria delle migrazioni”. E punzecchia i colleghi: “I cineasti della mia generazione sembrano ignorare la Storia e la Politica, dimenticano che siamo il loro prodotto”. Tra i film che considera seminali nel suo percorso, Gray si lancia in una dichiarazione d’amore al cinema italiano: “Non lo faccio perché sono qui. Potrei citare a memoria Rocco e i suoi fratelli, uno dei miei film preferiti: mi ha segnato la vita. Sono d’accordo con il mio amico Scorsese quando dice che il cinema italiano è lo zenit dell’arte. È stato grande perché sapeva unire il contesto storico e politico con le storie personali. E poi amo Fellini, Antonioni, Risi, Rosi, Pasolini, Scola, Bellocchio, Bava... E Lina Wertmüller: Pasqualino Settebellezze è l’unico film a dire che a volte è più dignitoso non sopravvivere”.

Senza dimenticare il cinema americano: “Mi sto specializzando nel cinema classico, non vedo serie televisive perché sono impegnato a vedere tutti i film del passato. Ho una passione per lo studio system hollywoodiano degli anni Quaranta: sono film politicamente spaventosi eppure emotivamente complessi, semplici ma non facili: Ford, Hawks, Hitchcock, Wyler e gli altri hanno capito che il lavoro era il modo per dialogare con se stessi, per identificarsi come autori”.

Armageddon Time rievoca la sua infanzia e non manca uno dei temi fondamentali del cinema di Gray: il rapporto con il padre. “È stato il legame più importante della mia vita, finché non sono diventato padre. A volte mi sono chiesto perché i miei genitori avessero fatto dei figli. Per intenderci, una volta chiesi a mio padre quale fu l’anno migliore della sua vita e mi rispose che fu il 1975. Io sono nato nel ’69, mio fratello nel ’76. Chiaro?”. Oggi è padre, e si illumina quando parla dei figli: “I bambini non sono innocenti, smettiamola con questa bugia. Un esempio è il mio più piccolo: mi ha giurato che non mi ucciderà mai”.

Quindi cosa vuol dire essere artisti? “Essere artisti fa schifo, siamo dei narcisisti, è una lotta continua. Ma non cambierai questa vita per nulla al mondo, perché sono pronto a lottare. Bisogna credere in ciò che si fa, per diventare migliori. Mi piace fare film perché mi sembra il modo più vicino per entrare nella coscienza altrui, come 8 ½ di Fellini. È la vita che mi sono scelto.”.