Non chiamatelo premio alla carriera. Non sono mai piaciuti troppo agli artisti, soprattutto quando non sono così avanti negli anni.
È il caso del montatore due volte premio Oscar (JFK nel 1992, Black Hawk Down nel 2001) Pietro Scalia, classe 1960, che il Locarno Film Festival onorerà stasera in Piazza Grande con la consegna del Vision Award Ticinomoda e domani con la proiezione di due dei suoi lavori più belli, Will Hunting – Genio ribelle e Black Hawk Down: “Inizialmente lo avevano chiamato Life Achievement, fortunatamente poi ci hanno ripensato. Ho ancora del lavoro da fare”, scherza.
Lo incontriamo in uno dei tanti eleganti alberghi della città ticinese che si affacciano sul Lago Maggiore. Ha l’aria rilassata. “Sono reduce da tre settimane di vacanze in Sicilia. L’ho girata in macchina”. Un ritorno a casa per lui che è nato a Catania da genitori siciliani.

Così come un tornare a casa è venire qui a Locarno.

“La Svizzera, dove mi sono trasferito da piccolo mi ha dato la possibilità di studiare e di andare negli Stati Uniti grazie alle borse di studio. Lì è cominciata la mia seconda vita. Ma a Locarno sono affezionato per diverse ragioni: da ragazzo venivo spesso qui per vedere i film del festival. Sognavo un giorno di proiettarne uno mio in Piazza Grande. Forse un giorno ci riuscirò”.

Fare il regista rimane un po’ il tuo sogno nel cassetto.

“È quello che un ragazzo s’immagina quando pensa al mondo del cinema. Io stesso ho iniziato girando dei documentari nei miei primi anni di studio in America. Per fortuna ho intrapreso una strada diversa che mi ha dato grandi soddisfazioni.”

È un dato che da quando hai vinto il tuo primo Oscar per JFK la figura del montatore è stata riscoperta.

“Sì, è stato incredibile. Molta gente ha iniziato a scrivermi. Gran merito va al film. JFK ha tirato fuori il livello visivo dal montaggio perché era fondamentale per il film stesso. Il soggetto era il montaggio. Dava allo spettatore la possibilità di interpretare il film in modo soggettivo. Tanti altri montaggi sono invece invisibili, al servizio di una narrazione più classica. Per questo è stata un’arte a lungo sconosciuta. Se non sei in sala di montaggio non puoi cogliere i momenti di creatività. Non immagini che non esiste nulla prima. È materia grezza quello che ci arriva. Poi devi plasmare, mettere insieme, tagliare soprattutto – tagliare è costruire – è allora che il film prende vita.”

Quanto è importante lavorare in simbiosi con i registi?

“Dipende dai registi. Ci sono quelli che ti lasciano fare, ti danno molta fiducia, altri che invece vogliono controllare tutto il processo. Il film è sempre l’incrocio di tre visioni: dello sceneggiatore, del regista e del montatore. Il prima, il durante, il dopo. Il senso del film cambia dal passaggio a uno stadio all’altro della lavorazione, è in uno stato fluido. E poi continua a vivere quando arriva allo spettatore. A me ad esempio piacciono molto quei film che rendono partecipi gli spettatori nel processo di costruzione del significato. È facile manipolare lo spettatore. Al tempo di JFK ci venne mossa questa critica. Ma era tutto il contrario. Era una manipolazione esibita che denunciava l’arte della falsificazione del cinema.”

Ti è mai successo che un regista non riconoscesse più un film dopo che lo avevi montato?

“Questo no. È accaduto invece che alcuni film prendessero realmente corpo al montaggio, fino a stravolgere addirittura l’idea iniziale. È il caso de Il gladiatore. Con Ridley Scott eravamo d’accordo sul fatto che non avesse una sceneggiatura. Il film andava “costruito” sia in fase di ripresa che di montaggio. C’era un buon primo atto, ma poi il film sulla pagina andava in un certo modo, sembrava ricalcare un modello alla Rocky, dove l’eroe di turno si esibisce in una serie di combattimenti contro nemici sempre più feroci. Abbiamo deciso invece di dargli una direzione completamente diversa e alla fine il film uscito dalla sala montaggio non era quello scritto sulla pagina. È diventata la storia di un uomo che vuole ritornare a casa, un eroe stanco. Era un modello semplicissimo, classico, su cui abbiamo innestato elementi della storia antica di Roma. Ed è riuscito."

Ti hanno coinvolto per il sequel?

“Purtroppo no, stavo lavorando al film di Michael Mann.”

A proposito di Ferrari, che vedremo presto in concorso alla Mostra di Venezia, puoi dirci di più?

“Il film di Michael Mann non è un biopic, racconta un periodo specifico nella vita di Ferrari, un momento familiare tragico seguito alla morte del figlio. Il protagonista vive una situazione precaria. È la prima volta che lavoravo con Michael Mann anche se lo conoscevo da anni. Aveva questo progetto tra le mani da tempo. Continuava a mandarmi sceneggiature ogni volta rimaneggiate per chiedermi di farlo insieme. Ero lusingato perché è una persona che stimo ma continuavo a dirgli di no a causa dei miei impegni di lavoro con Ridley Scott, finché non è arrivato il momento giusto."

Che collaborazione è stata?

“È stata un’esperienza molto bella, non facile. Ho potuto osservare da vicino il suo modo di lavorare e ne sono rimasto colpito: Michael Mann ha un controllo totale sul lavoro, dalla scrittura alla fotografia agli attori. La sua dedizione è totale, la sua precisione maniacale. È incredibile, ha un’energia impressionante, un’intelligenza vivacissima e ha 80 anni. È stato un lavoro faticoso, il materiale girato era tanto, ma l’abbiamo portata a casa e il risultato finale mi ha lasciato molto soddisfatto."

Prossimo progetto?

“Per la prima volta non lo so. Finora ho sempre lavorato, di continuo. Torno a Los Angeles e vedo che cosa viene fuori.”