I wanna be your slave, titolo del singolo dei Maneskin di cui Simone Bozzelli diresse il videoclip, potrebbe tranquillamente nominare il suo lungometraggio d’esordio. Niente in contrario all’esotizzante, evocativo Patagonia (vi ricordate l’America latina dei D’Innocenzo?) ma l’amore tossico dai riflessi autobiografici  – è una supposizione di chi scrive, con diritto di smentita per il regista – mette al centro la schiavitù relazionale, la manipolazione psicologica, le “gabbie” (parola evocata più volte da Bozzelli promuovendo il film) identitarie e sentimentali di giovani, precarie creature in transito verso la maturità.

Volto e vittima dell’abbaglio è qui il neanche ventenne, ingenuotto  “Rapagnetta Yuri” (Andrea Fuorto). Adulto ancora bambino, di genitori ignoti, vive con le anziane zie (una al mese), batte gli scontrini in macelleria, si annoia, accarezza cuccioli fin quando, alla festa di compleanno del nipotino, incontra il luciferino Agostino (l’esordiente e convincente Augusto Maria Russi). 

La fuga sul camper sgangherato dell’animatore di feste consegna Yuri all’erranza nell’entroterra abruzzese e all’eccitante, straziante, scoperta di sé nella scoperta dei sentimenti. Dopo una festa di compleanno Agostino i due finiscono in un rave. Finita la baldoria, inizia la manipolazione: violenza psicologica (gaslighting scriverebbero gli esperti in materia), svalutazione, umiliazioni psicofisiche e iniziazione sessuale. Yuri, abbagliato, dall’intraprendenza conturbante di Agostino incassa e si macera nel senso di colpa. Fuori dal guscio opprimente di un’infanzia durata troppo a lungo, si trova incatenato da un sentimento tanto calamitante quanto pericoloso.

Ci sono tutti i corollari tipici del repertorio in questo coming of age a due in salsa road movie (nella prima parte), sfilato in concorso a Locarno, dopo aver agognato Cannes prima, Venezia poi. E c’è anche una certa, paziente smania di incontrare e raccontare una gioventù traballante e incerta, alla ricerca di forme di socialità alternative. 

Intendiamoci, però, niente di nuovo sotto il cielo (spesso, simbolicamente, nuvoloso) di una campagna abruzzese – tra Silvi Marina, Montesilvano e Città Sant’Angelo, triangolo spaziale dell’adolescenza per il regista – spelacchiata e rarefatta, sospesa in un limbo oltre il quale s’indovina la città lontana (ma non la Patagonia). Perché Bozzelli, per elaborare il privato, strizza l’occhio (forse tutti e due) a una schiera illustrissima di venerati maestri del genere: per non scomodare il portabandiera Buñuel, ci limitiamo a convocare i contemporanei Garrone e Dolan.

Su questo sottobosco già fertilissimo, però, il regista (anche sceneggiatore con Tommaso Favagrossa) innesta una certa, pregevole peculiarità e coerenza di stile: tornano la fascinazione per i dettagli, i dialoghi sospirosi e sospesi dei cortometraggi, l’angoscia vorticosa delle camere a mano e gli scorci lirici sulla montagna abruzzese. Pollicino della camera mobile, pianta i semi narrativi giusti al momento giusto: Agostino che incanta i bambini come Yuri; il camper come carcere sentimentale; l’alcool e il rave come annullamento di sé; la Patagonia come altrove per ritrovarlo; la zoofilia come catarsi.

Simone Bozzelli (credits: Claudia Sicuranza)
Simone Bozzelli (credits: Claudia Sicuranza)
Simone Bozzelli (credits: Claudia Sicuranza)

Sperando di essere smentiti in pieno, rimangono, però, perplessità sul pubblico (Vision Distribution porterà il film in sala) che potrà intercettare un film così dolente e intenerito, rannicchiato in sé stesso, compiaciuto del torbido ecosistema emotivo che compone, del cinema come autoanalisi del sé in funzione all’altro. Un’opera soprattutto risucchiata nel vortice emotivo del protagonista e così naturalmente ossessiva nel cesellare, un primissimo piano alla volta titubanze, sospiri, timori, frustrazioni del personaggio principale, a tal punto da rendere tutti gli altri all’infuori del duo Yuri-Agostino, semplici agenti dell’intimità del primo, senza indipendenza né pienezza.

Forse esagerando, l’impressione di fondo, però, è che il neanche trentenne Bozzelli sia già di fronte a un bivio cruciale: o fa il salto di qualità come regista maturo e persino acclamato (i favori della critica per ora non gli mancano, ma neanche il talento), magari slargando una poetica (effettivamente si potrebbe vedere Patagonia come semplice estensione del cortometraggio J’ador) che per ora pare autocompiaciuto manierismo asfittico, o sguazzerà nella fanghiglia dell’anonimato tra qualche titolo da festival, serialità su commissione e tanti rimpianti.

(Già) al prossimo lungometraggio l’ardua sentenza.