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“Tutti sanno che la fine del mondo ci sarà”, scrive Nicola Lagioia in quello che è forse il suo capolavoro, La città dei vivi. E allora noi, insomma, siamo senza speranza o ci stiamo avvicinando a un grande cambiamento (e, nel caso, siamo pronti)? “Una certa idea di mondo è finita: quella secondo cui una generazione starà meglio della precedente. Abbiamo capito che i progressi tecnologici possono contribuire alla nostra estinzione”.

Da Don’t Look Up a The Last of Us passando per Siccità, il racconto del presente è già dentro un futuro distopico. Perché?
Nel modo in cui interpretiamo il futuro c’è sempre una diagnosi del presente. Noi, cioè europei e statunitensi, viviamo in un relativo agio, non dobbiamo lottare per la sopravvivenza, in generale siamo solo molto stressati. Abbiamo accesso in maniera vertiginosa alle conoscenze, viaggiamo con facilità. Eppure, c’è meno giustizia sociale, la democrazia conosce battute d’arresto, il cambiamento climatico ci preoccupa. Lo sappiamo, il mondo ha fatto in tempo a suicidarsi già parecchie volte. E così il futuro è un’incognita.

Bella Ramsey e Pedro Pascal in una scena di The Last of Us, disponibile su Sky e in streaming su NOW

Ma allora la distopia è una via di fuga?
Per certi versi dà una risposta a un’ansia ingiustificata, per altri dà voce alla paura dell’ignoto che l’umanità prova da sempre. Se tendiamo a vivere il presente in maniera distopica è per un problema reale: la paura del cambiamento.

I cambiamenti fanno così paura?
Sono cicli tipici, ma la cosa diversa rispetto al passato è la velocità: il Medioevo ci ha messo secoli per concludersi, ora invece c’è un’accelerazione che forse ci sta facendo sottovalutare tutte le cose radicali che stanno capitando e capiteranno nei prossimi decenni. Siamo dentro un cambio di paradigma.

Cioè?
Prima il nostro compito era non fare per evitare una catastrofe. Oggi invece dobbiamo fare qualcosa per evitare che la miccia esploda. Sappiamo di più, anzitutto che i cambiamenti ecologici sono dovuti a una sola specie: l’uomo. Allo stesso tempo, tuttavia, non abbiamo il controllo del mondo. Siamo convinti di non essere all’altezza della soluzione, che vivremo molti più disastri che in passato.

Siamo capaci di immaginare un futuro diverso?
I nostri dubbi sono leciti ma, mi chiedo, questo futuro pericoloso è già scritto? Siamo alle soglie di un cambiamento epocale. Prendi ChatGPT, un’intelligenza artificiale molto grezza: è solo l’annuncio di ciò che sta per arrivare, come i computer quantici. Non è la prima volta che ci troviamo in una linea di confine così decisiva. Pensiamo a Internet: alla prima possibilità, ci siamo buttati nel cyberspazio senza farci troppe domande. E, tutto sommato, abbiamo retto. Quel cambiamento non ci ha fatto paura. Perché era concettuale e non fisico. E ha agito nel profondo. Siamo in rapida mutazione, non sappiamo come sarà il futuro. Anche i gatti non vogliono spostarsi dal divano dove stanno comodi: è la stasi, la dimensione ideale, non il pericolo. Delle due, l’una: è un istinto di sopravvivenza oppure siamo come le falene che, attratte dalla luce, finiscono per sbatterci contro? Spero la prima.

Interstellar © Warner Bros.
Interstellar © Warner Bros.

Interstellar © Warner Bros. 

Chi e come sta raccontando questa fase?
Penso a Solenoide, il capolavoro di Mircea Cărtărescu. Sono convinto che diventerà un grande classico della letteratura: come Marcel Proust e Virginia Woolf che, grazie alle teorie sulla relatività, scoprirono che il tempo non era più un concetto lineare, Cărtărescu ha studiato e usato la fisica quantistica per raccontare una storia che ci dice qualcosa su dove stiamo andando.

E il cinema come si pone?
Anche Christopher Nolan si è servito della fisica quantistica in Interstellar, ma senza incarnarne i paradossi, fermandosi su un piano divulgativo. Ma se penso a Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, mi rendo conto che fino a pochi anni fa un tipo di narrazione così non sarebbe stata possibile. Stanley Kubrick l’avrebbe fatto diversamente. Nessuno aveva trovato il coraggio di trasporre le strutture complesse di Thomas Pynchon, un maestro della letteratura postmoderna. È strano che queste opere così innovative non abbiano generato fenomeni di massa.

Intende dire che in questa fase non ci sono opere capaci di incidere nell’immaginario?
Dico che sono cambiati gli effetti su di noi. 8 ½ di Federico Fellini riprendeva alcune avanguardie del Novecento, ma ha rivoluzionato il cinema, quando è uscito provocò un cambiamento epocale. E così The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, un’impresa sperimentale che resta seminale a mezzo secolo dall’uscita. Le opere non sono più eventi epocali, agiscono in modo diverso: anziché provocare ondate sociali, spostano in modo non impercettibile la sensibilità dei fruitori. E quegli stessi fruitori trasmettono ad altri l’impatto che ha avuto su di loro.

Se le opere agiscono soprattutto sulla condivisione, come si configura l’ansia del pericolo imminente? È legata anche al fatto che oggi tutti hanno la possibilità di parlarne su scala globale?
Le prime comunità cristiane erano convinte che sarebbe arrivata la fine del mondo. Ed è una convinzione che si è propagata senza i social. Le grandi narrazioni ci sono sempre state. È vero, oggi tutti possono parlare, però continuano a esserci voci più rilevanti di altre. Mi sembra più vertiginoso capire come si esprime ognuno. Comunichiamo in modo immediato, mentre facciamo altro, in primis lavorare. E questo accade nell’epoca in cui il lavoro definisce l’individuo in modo più netto che in passato.

Marcello Mastroianni in 8½ © CINERIZ (Webphoto)
Marcello Mastroianni in 8½ © CINERIZ (Webphoto)

Marcello Mastroianni in 8½ © CINERIZ (Webphoto)

A cosa è dovuto?
Lavoriamo in modo più frammentato, l’organizzazione ottocentesca, quella su cui si è edificato il marxismo, si è dissolta in altro. Le istanze di giustizia sociale restano valide perché la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma sono cambiate tante altre cose. Come la gestione del tempo: il tempo libero non è più tale. Non esiste più un fuori.

Senza un fuori e senza un dopo?
I dati sui cambiamenti climatici sono impressionati, eppure non bastano. Siamo abituati a consumare risorse, a crederci il centro dell’universo e non una parte. Non sono un fanatico dell’antispecismo, ma senza una rivoluzione che sia anche filosofica e spirituale non possiamo combattere la tracotanza di sentirci la specie eletta. E la convinzione che tutto sia dovuto al nostro ego sclerotico e distruttivo.

C’è una parte di mondo che sta provocando il disastro e non fa nulla per impedirlo.
Non è solo una questione di privilegi, c’entra il conservatorismo. Tutti siamo affezionati al mondo così come lo abbiamo conosciuto, ma non è saggio restare attaccati a quello in cui siamo stati giovani e vivi. Dobbiamo accettare l’idea di essere creature transitorie, in relazione con ciò che ci sta attorno. Prendi le piante: non esisteremmo perché ci serve l’ossigeno, ma loro sono esistite anche senza di noi. Non voglio farne un discorso di profitti, ma ci conviene fare a meno delle piante? L’hanno capito figure lontane, da Papa Francesco di Laudato si’ ai cultori della psichedelia fino agli studiosi dell’antropocentrismo: riconoscersi nell’altro è indispensabile.