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Jeremy Allen White as Bruce Springsteen in 20th Century Studios' SPRINGSTEEN: DELIVER ME FROM NOWHERE. Photo courtesy of 20th Century Studios. © 2025 20th Century Studios. All Rights Reserved.
Scott Cooper è sempre stato in qualche modo legato alla musica. Il suo debutto, Crazy Heart, non era altro che il biopic sentimentale di un artista immaginato ma profondamente reale. Lavorare a Springsteen: Liberami dal nulla, dal 23 ottobre in sala, è stata una sfida personale ancora più complicata. Non si è trattato solo di fare un film sul Boss, un artista al quale è legato emotivamente, ma di rappresentare la fase più complicata della sua vita. Tra flashback in bianco e nero e un Jeremy Allen White che dà corpo a un Bruce incupito che, davanti alle scene di Badlands di Terrence Malick, idea i personaggi di Nebraska. Non aspettatevi scene da cantare a squarciagola, ma un ritratto sensibile.


Scott Cooper, è la sua prima volta alle prese con un biopic.
Non l’ho concepito come la classica storia della rockstar, ma come qualcosa di più intimo. Per questo abbiamo scelto di concentrarci solo su un paio d'anni, un periodo molto coraggioso della sua vita. Nebraska è la cosa più punk che Springsteen abbia mai fatto. Niente tour, niente band, niente rifiniture, solo la verità registrata su una cassetta a quattro tracce, mentre affrontava alcuni fantasmi della sua infanzia.
Quanto è stato coinvolto Springsteen nella produzione?
Quando avevo bisogno di qualcosa Bruce c’era sempre. Credo gli piacesse stare con noi anche se raramente esprimeva una sua opinione a meno che non glielo chiedessi. Mentre scrivevo la sceneggiatura gli inviavo le bozze per assicurarmi della veridicità, ma l’unica sua preoccupazione era che il film non fosse un’agiografia. Per questo, se la gente si aspetta di vedere scene con i suoi inni cantati negli stadi, beh, rimarrà profondamente delusa.
Quale è stato l’aspetto più complicato?
Basti pensare che erano circa trent'anni che la gente chiedeva a Springsteen di realizzare un film sulla sua vita e lui aveva sempre risposto di no. È difficile esprimere cosa abbia significato per me camminare al suo fianco ed esplorare la sua anima. Bruce è orgoglioso dei suoi difetti e la cosa difficile è stata rendere questa sua vulnerabilità sullo schermo.
Quale è il suo rapporto con la musica di Bruce Springsteen?
Ho un legame speciale con Nebraska. Mio padre, che se n’è andato il giorno prima che iniziassi le riprese, me lo fece scoprire da adolescente. Quindi quel disco e questo film sono incredibilmente personali per me. Insieme a The Ghost of Tom Joad è stato il mio sottofondo mentre scrivevo Out of the Furnace. Credo che quell'album abbia predetto il mondo in cui viviamo oggi: disillusione, ambiguità morale e silenziosa disperazione.
Quindi, anche lei ha avuto a che fare con i suoi ricordi lavorando a questo film.
Mi succede ogni volta. Fare film per me è un modo per affrontare le esperienze che ho vissuto o i traumi. È terapeutico. Poi credo che raccontare la storia di Bruce nel momento più doloroso della sua vita oggi assuma un valore universale perché molta gente qui in America soffre di salute mentale. La mia speranza è che le persone si rivedano in lui come ho fatto io, rivalutino la potenza della vulnerabilità e trovino la fiducia per poter andare avanti.
Vede delle somiglianze tra gli Stati Uniti che racconta nel film e quelli odierni?
Penso che sia tutto incredibilmente attuale. L'identità di Bruce è legata alla storia politica americana. Non è solo un musicista. È un simbolo, un poeta della classe operaia, una coscienza morale riluttante, un uomo che non ha mai riposto piena fiducia nel sistema, ma ha sempre creduto nelle persone. Se realizzi un film onesto su Springsteen è impossibile evitare di chiedersi: “Cosa significa essere americani? Si può amare il proprio Paese e allo stesso tempo criticarlo?”. Sono domande politiche nel senso più vero del termine, anche se questo film non è un film politico. E penso che Bruce si sia sempre sentito come i personaggi delle canzoni di Nebraska e, dando loro voce, abbia compiuto un atto politico.
Nella prima scena in cui compare, Jeremy Allen White canta. È stata una scelta narrativa o un modo per far capire subito allo spettatore che fosse l’attore giusto?
Quando ho iniziato a pensare a questo progetto, sapevo già che Jeremy sarebbe stato perfetto. Ha un portamento simile e una somiglianza impressionante allo Springsteen degli anni ‘80. Persino sua moglie Patty, vedendolo, ha detto: “Sembra il Bruce che ho incontrato per la prima volta”. Jeremy ha due cose che ritengo fondamentali per catturare l'essenza di Bruce: l’umiltà e la spavalderia. Quest’ultima non si insegna alla scuola di recitazione. O ce l'hai o non ce l'hai.
Quando ho saputo che stava lavorando a un biopic musicale mi è venuto in mente il suo esordio Crazy Heart. L’ha rivisto durante le riprese o ha cercato di distanziarsene il più possibile?
Il primo film lo si gira una volta sola, soprattutto se ti cambia la vita. Non l’ho rivisto perché penso che la forza di qualsiasi opera, e spero anche delle mie, risieda nella sua sincerità. Non ho però neppure cercato consapevolmente di prenderne le distanze, anzi ho adottato lo stesso approccio coinvolgente nel dare voce alla fragilità dei personaggi più che alla loro eccezionalità. Quindi, in un certo senso, immagino che siano collegati. Tuttavia, spero che non si percepisca troppo la mia impronta in nessuno dei due film. Che si dica al massimo: “Oh, sono stati realizzati dallo stesso regista”.