La domanda è legittima: Il sol dell'avvenire è un film capace di parlare anche a chi non conosce nel dettaglio e/o non ama il cinema di Nanni Moretti? La riposta non è semplice, perché chi prova a darla conosce nel dettaglio e ama il cinema di Moretti.

Epperò bisogna anche fare i conti con un regista che, da sempre, ha trasfigurato la propria realtà in un cinema che faceva poco o nulla per nasconderne fisime, idiosincrasie, debolezze ed avversioni, incrollabili certezze - private, politiche, sociali - e ferree convinzioni, condivisibili o meno, certo, ma anche queste sempre fortemente riconoscibili.

È impensabile dunque approcciare alla visione di questo suo ultimo film senza sapere - non foss'altro in superficie - che cosa sia il Nanniverse.

La cosa sorprendente del Sol dell'avvenire però è che questa ennesima, nuova sovraesposizione morettiana (“Spostati e fammi vedere il film”, passò alla storia la battuta di Dino Risi) si fa manifesto – non testamento – di una poetica che mai come stavolta tende alla progressione di un “cambiamento”.

La vicenda di Giovanni si sviluppa (casualità?) su tre piani: la sfera privata con moglie produttrice che cerca il momento giusto per lasciarlo e figlia da poco fidanzata con un uomo molto più maturo di lei; la sfera lavorativa con film da dirigere ambientato nel ’56, in un quartiere popolare di Roma animato da una sezione PCI, nei giorni dell’invasione sovietica in Ungheria, la sfera etica e del desiderio, da una parte continuando ad impuntarsi laddove ravvisa la mancanza di uno sguardo capace di elevarsi rispetto alla piattezza di una violenza banale, dall’altra continuando a fantasticare (non era così anche in Aprile, in fondo?) la realizzazione di un film che racconti una storia d’amore lunga 50 anni contrappuntata da sole canzoni italiane.

Ecco, ognuno di questi piani, con i relativi personaggi che li abitano (la moglie Margherita Buy, la figlia Valentina Romani, gli attori del film-nel-film Silvio Orlando e Barbora Bobulova, gli attori del film-nel-film-nel-film Blu Yoshimi e Michele Eburnea), si accavallano, costringendo il protagonista a rivedere intanto lo sviluppo di una Storia (e “se” fosse andata diversamente in quei giorni, con il partito comunista italiano che condannava fermamente l’invasione URSS in Ungheria?) che finirà per cambiare il finale scritto del suo film e, perché no?, riappacificarsi anche con il disagio.

Nella vita non si cambia mai”, dirà Giovanni al team Netflix che gli chiede dove sia il turning point e, soprattutto, perché non ci sia alcun cambiamento nello sviluppo del personaggio protagonista.

E invece, in maniera sorprendente, stavolta Nanni si rende conto che “poco poco, nel corso degli anni, le persone cambiano”. E lo stesso vale per lui.

Certo, i sabot – “dietro i quali c’è una tragica visione del mondo” – dubitiamo li accetterà mai, ma Todo cambia di Mercedes Sosa in Habemus Papam ci aveva in qualche modo già avvertiti dodici anni fa. E tutto il campionario del Moretti prevedibile di inizio film, a partire da quella recitazione che scandisce ogni singola parola, passando per le canzoni cantate in auto (stavolta tocca a Noemi), gli occhi spiritati su quel giro infinito in monopattino intorno a Piazza Mazzini, poco a poco si smussa, le idiosincrasie non scompaiono del tutto ma la sensazione è che si proceda verso un’accettazione di sé e – a fatica, ci mancherebbe – del mondo tutt’intorno.

D’altronde, parole sue, “il cinema serve a sognare una realtà più bella”. La Storia non si farà con i se, ma quella volta che accade è giusto richiamare tutti (o quasi) i compagni di un’avventura lunga ormai 14 film. E salutarci come se fosse l’ultima volta. O la prima, di una nuova storia.