Se gli ultimi sopravvissuti alla Shoah iniziano a morire spetta all’arte l’onere della memoria. All’arte in generale, come imperativo etico, e a quella rubata da Hitler, pagina rimasta a lungo incollata nel lungo libro dell’infamia.

Ed ecco  il cinema. Prima The Monuments Men, quindi Francofonia, adesso Woman In Gold, che rievoca la battaglia processuale del 1998 tra l’ebrea Maria Altmann, legittima erede della Dama in Oro di Klimt (la dama, Adele, era la zia) e l’Austria, che si impossessò del quadro ai tempi dell’Anschluss.

Una querelle che dalle aule giudiziarie  usciva per presentarsi davanti al Tribunale della Storia perché, come dice qualcuno nel film, “Le opere d'arte trafugate dai nazisti sono gli ultimi prigionieri di guerra”.

Simon Curtis stringe la mdp addosso sulla sua eroina, interpretata magistralmente da Helen Mirren (con Ryan Reynolds che sembra lo scolaretto sotto tutela), trasformando l’intero affare della restituzione nella vicenda di un risarcimento più grande.

Opta per una messa in scena ariosa, dagli ingranaggi elementari, tutta incardinata sui flashback. Non convince del tutto e l’esito è scontato. Però vedere qualcuno ottenere giustizia resta sempre uno spettacolo gratificante.