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Birdman, @Webphoto
Ero all’evento di lancio di Squid Game 3, organizzato da Netflix in un museo romano con quel mix ormai consolidato di meraviglia visiva e attenta cura del dettaglio promozionale. Tutto impeccabile, sia chiaro. Ma non è questo il punto. Il punto è che guardandomi intorno, in mezzo a decine e decine di content creator, influencer e cosplayer con tute verdi e maschere geometriche, ho avuto la netta sensazione di essere finito nel posto sbagliato. Non nel senso che non avessi diritto a stare lì (avevo pur sempre il mio tesserino da giornalista in tasca), ma nel senso che la figura stessa del giornalista e del critico, in quel contesto, sembrava diventata quasi un relitto da museo. Curioso, perché eravamo già dentro un museo.
In quel momento ho avvertito un cortocircuito. La critica cinematografica – quella vera, con i suoi strumenti d’analisi, la sua responsabilità culturale, la sua capacità di dissentire – sembrava non avere più cittadinanza. L’evento, come molti altri simili, era costruito per l’ecosistema social: nessuno pretendeva una recensione, tantomeno una stroncatura. L’importante era “esserci” e mostrare che “si stava bene”.


Come ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera ("La critica militante. Lustrare e illustrare", 1 luglio) riferendosi soprattutto al mondo letterario, «oggi la stroncatura è una specie in via d’estinzione. Viviamo nell’epoca della recensione amichevole e del plauso di circostanza». Se questo vale per la letteratura, figuriamoci per il cinema, dove la necessità di un feedback positivo immediato e "virale" si mangia qualsiasi tentativo di analisi approfondita o, Dio non voglia, negativa.
Vale per la letteratura, ma il cinema non è da meno. L’amichettismo e l’auto-conservazione esistono anche qui, e il risultato è che la critica si ritira in silenzio. O peggio: si trasforma in un’estensione elegante dell’ufficio stampa.
Il fenomeno non è solo italiano. Quando A.O. Scott ha lasciato il New York Times, dopo vent’anni da critico capo, ha scritto che «la cultura dei fan è per sua natura conformista, e la critica è sempre più invisa perché rompe questo schema di appartenenza e complicità». In poche parole: il critico oggi è visto come un guastafeste. E per questo è spesso messo da parte.
Dove vanno allora le stroncature, le opinioni fuori dal coro? Finiscono su Letterboxd, Reddit, nei thread di Twitter, nei video pungenti di YouTube, nei blog anonimi. È lì che sopravvive, spesso in forma rozza ma autentica, un pensiero critico non mediato dalle dinamiche promozionali. Come ha scritto Richard Brody sul New Yorker: «La critica non è mai stata così interessante. Solo che nessuno la paga più».
E qui si apre una questione centrale: i content creator non sono un problema in sé. Fanno un altro mestiere – e lo fanno spesso bene. Ma non sono critici. Il problema è quando la critica smette di essere tale per rincorrere la loro grammatica, il loro ritmo, la loro voglia di piacere. È quello che Jonathan Rosenbaum, nel suo Movie Wars, aveva già diagnosticato come la riduzione della critica a “strumento di marketing”.


Je m'appelle Morando, Alfabeto Morandini. @Webphoto
Che fare? Forse la risposta più semplice è anche la più difficile: tornare ad assumersi il rischio del dissenso. Scrivere una recensione negativa – ben argomentata, limpida, onesta – è oggi un atto di coraggio. Ma anche un gesto necessario. Come diceva Morando Morandini: «La critica è un servizio, non un favore».
Perché alla fine, se la cultura diventa solo intrattenimento, e la critica solo cornice decorativa, perdiamo tutti. Non si tratta di essere nostalgici o elitari, ma di difendere uno spazio per lo sguardo autonomo, libero da like e algoritmi.
E magari la prossima volta, all’evento promozionale perfetto, ci sarà posto anche per qualcuno che scrive non per “illustrare”, ma per illuminare.