L'eroe cinematografico americano ha ormai cambiato volto. Non è più il self-made man, l'uomo senza macchia che rappresenta i valori più puri e intoccabili della democrazia e della società. Adesso è diventato il drammatico esponente del periodo di crisi che proprio quella società sta attraversando, con tutte le ambiguità e le contraddizioni che ciò comporta.
Nel caso di Warrior di Gavin O'Connor gli eroi/facce dell'America sono addirittura due: il soldato tornato in patria dalla guerra che deve fronteggiare il sangue e il dolore del suo recente passato, e il padre di famiglia che per superare la crisi economica è costretto a tornare sul ring. Se poi i due sono fratelli legati da una vicenda familiare fatta di rancori e incomprensioni, ecco che gli ingredienti per il melodramma vengono serviti nella loro pienezza.
La base molto solida di Warrior sta prima di tutto in una sceneggiatura che si concede il tempo necessario per raccontare a fondo le backstory e le vicende personali dei vari personaggi. Quando poi parte il vero e proprio confronto sportivo è impossibile di conseguenza non parteggiare per Brendan o Tommy. La progressione drammatica viene perfettamente scandita e si rivela potente, valorizzata dall'idea di messa in scena di O'Connor che è sempre asciutta e concentrata sul fattore umano della storia. Il resto lo fa un gruppo di attori affiatato e emozionante: il “grande vecchio” Nick Nolte possiede ancora una grande presenza scenica, così come l'astro nascente Tom Hardy. Il migliore tra tutti è però Joel Edgerton, la cui prova contenuta e umanissima lascia intravedere potenzialità insospettate: è lui il cuore pulsante di un film ottimamente costruito e capace di raccontare in filigrana un Paese in difficoltà ma che sa ancora compattarsi nel momento del bisogno. Oltre alla semplice ed efficace cornice sportiva, Warrior è una parabola dolente sulla disillusione dell'American Dream: oggi non si può più sognare, si deve prima riuscire a sopravvivere.