Finalmente, dalla sezione Orizzonti, arriva un film documentario forte e rigoroso. Romuald Karmakar compone l'ennesimo ritratto della Mostra di quest'anno, riuscendo però ad andare oltre l'apologetica d'occasione. Ricardo Villalobos è uno dei dj più quotati d'Europa. Nel suo studio Karmakar osserva in silenzio i suo movimenti rapidi e sicuri in mezzo a pile di vinili, enormi casse acustiche, uno spaventoso groviglio di cavi e una vasta collezione di macchinari d'ogni sorta. Poi iniziano le domande e i conseguenti racconti. Si dice che alla scena del pranzo nel cinema di finzione corrisponda l'intervista in quello di non fiction: un genere di situazione difficile da gestire e ancor più difficile da elaborare per trarne un discorso che spinga il film oltre la semplice comunicazione di contenuti.
In testa e in coda Karmakar, con coraggio e coerenza, mette due lunghe sequenze osservative, due dei molti dj set di Villalobos in giro per le discoteche più in voga d'Europa: la camera, ferma dietro le spalle del protagonista che si agita e armeggia intorno ai piatti del giradischi, fissa la sala ricolma di corpi che si agitano ipnotizzati e come invasati dall'assordante ritmo del beat. Tra incipit e fine il dj s'inoltra lungo un affascinante e tortuoso sentiero che dalla descrizione dei nuovi dischi appena acquistati giunge fino alla narrazione del suo lavoro di musicista compositore, alla dimostrazione del complesso remix del "Bolero" di Ravel, all'illustrazione della vita segreta e misteriosa d'un vecchio sintetizzatore modulare recuperato a nuova vita dal suo oscuro passato. Così un piccolo film su un piccolo artista diventa un vitalistico affresco sulla sessualità, la tecnologia, l'arte e l'industria, sul gusto di un'epoca e di una società. O almeno su una parte di essa, quella che ogni notte, come già molti secoli fa nell'Africa Nera, dice Villalobos, abbandona membra e intelletto alla pulsazione binaria d'un amplificatore.