Yann lavora come cuoco in una mensa scolastica. Un giorno conosce Nadia (Leila Bekhti), bella libanese trapiantata a Parigi, ed è colpo di fulmine. Dopo poco, insieme a Slimane (Khettabi), il bambino avuto dalla donna anni prima, scoprono un locale dismesso in riva ad un lago. Decidono di comprarlo e di farne un ristorante: sarà l'inizio della loro rovina, tra prestiti revolving, lavori infiniti e indebitamenti continui, vedranno sgretolare il loro sogno giorno dopo giorno e metteranno a rischio la loro unione.
Senza un attimo di tregua, Cedric Kahn segue la discesa nell'abisso del suo protagonista (un Guillaume Canet devastante) facendo dell'hic et nunc cinematografico non solo questione di stile ma etica del racconto: sì, perché Une vie meilleure (che riporta il regista de La noia e Roberto Succo in concorso a Roma tre anni dopo Les regrets) non è semplicemente la "messa in scena" di un aspetto della realtà dei nostri giorni. Non si preoccupa - come ricordato dallo stesso regista e come spesso avviene al cinema - di attenuare o sublimare il dramma vissuto da un numero sempre maggiore di persone, al contrario sembra continuamente alimentarsi della vita che racconta per arrivare dritto alla meta, e al cuore.
La meta è quella che dà il titolo al film, Una vita migliore, il percorso dovrà necessariamente passare da un cambiamento: lo stesso che Cedric Kahn chiede tanto al suo Yann - smettere di lasciarsi sottomettere dal desiderio veicolato da un sistema libertario e capitalista - quanto allo spettatore. Perché un cinema migliore è possibile, ma è fatto di situazioni e personaggi così: veri, mai ricattatori, tremendamente lontani dai modelli perpetrati nel corso del tempo dall'industria dello spettacolo, così vicini a chi si ritroverà ad osservarli sullo schermo. Chapeau.